Per uno che ha studiato dai salesiani, che ha frequentato l’oratorio, che sognava di fare il prete, non si capisce come poi abbia scelto di fare l’assassino. Forse per denaro. O forse per il potere che in Sicilia, si sa, a volte conta più dei soldi. Ma è sempre stato comunque un’eccezione nello scenario mafioso, uno dei capi più importanti di Cosa nostra e anche grande uomo d’affari. Mentre a Palermo sparavano e le strade puzzavano di sangue, Benedetto Santapaola a Catania stava diventando ricchissimo in silenzio.

La sua città l’ha soffocata e ricattata per almeno un quarto di secolo. Eppure di lui se ne sente parlare sempre poco, qualcuno non ricordava sino a ieri neanche se fosse vivo o morto. Sino a ieri.

Nobiltà criminali

Perché nella notte un’operazione dei carabinieri dei reparti speciali in mezza Italia ha fatto il vuoto con una trentina di catture nella sua sterminata famiglia, un popolo di mafia numerosissimo, molti anche congiunti fra loro, tant’è che investigatori e magistrati hanno dato alla loro inchiesta un nome in codice significante per esaltarne la portata e l’essenza: Sangue blu. Nobiltà criminale. L’indagine svela anche il nuovo reggente dell’organizzazione, si chiama Francesco Napoli ed è nipote di Salvatore Ferrera, un boss imparentato con Benedetto Santapaola come lo sono gli Ercolano, altro ramo del clan.

Una ragnatela di cugini, cognati, sorelle e fratelli degli uni che sposano i fratelli e le sorelle degli altri, zii, figliocci, padrini. Più che un impasto un patto per la vita.

Ma al vertice c’è sempre lui, un po’ malandato per i suoi ottantaquattro anni, ventinove dei quali passati al carcere duro dopo l’arresto avvenuto nella primavera del 1993 in una sperduta campagna fra i fichi d’India intorno a Caltagirone.

Anche quella volta i poliziotti scelsero un nome per l’operazione: Luna piena. Perché? Perché Benedetto Santapaola veniva chiamato “il licantropo”. Ma per altri era “il cacciatore” o più confidenzialmente “lo zio Nitto”. Tutte inciurie, soprannomi, che non hanno mai tracciato bene il profilo del personaggio né evidenziato il suo peso. Chi è davvero Benedetto Santapaola un giorno me l’ha spiegato con una fulminante battuta l’amico e collega Riccardo Orioles: «È semplicemente un grande imprenditore, un grande imprenditore che uccide».

Questore e prefetto

Le origini sono modeste, quartiere San Cristoforo, miseria, abbandono. Le prime rapine, le “prove” di fedeltà che gli impongono i vecchi di Cosa nostra catanese, i regolamenti interni per contendersi territori fra boss e clan dai fantasiosissimi nomi: Cavadduzzu e Cursoti, Musso ri ficurindia e Carcagnusi, Cannarozzu d’argentu e Turi Cachiti.

Fa l’ortolano, il venditore di scarpe, ha un piccolo negozio di cucine. Fino a quando, nel 1981, apre la più grande concessionaria d’auto di Catania. All’inaugurazione ci sono il prefetto e il questore. Tre anni prima, nel 1978, Benedetto Santapaola si libera di Giuseppe Calderone, il capo della mafia della città e in cima alla cupola regionale, una carica più onorifica che altro, un premio di consolazione per risarcirlo dalla lontananza da Palermo. È uno all’antica, tutto regole e comandamenti, lo zio Nitto lo spegne con i suoi fedelissimi ed eredita il regno. Sono gli anni dei primi delitti eccellenti in Sicilia, ci sono magistrati (palermitani e trapanesi) che cadono e magistrati (catanesi) che proteggono i mafiosi, ai piedi dell’Etna c’è una cappa. Se ne accorge il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, appena nominato prefetto di Palermo alla fine del primavera del 1982. In una clamorosa intervista rilasciata a Giorgio Bocca su Repubblica dice: «È finita la mafia geograficamente definita della Sicilia occidentale. Oggi la mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo».

L’omicidio di Pippo Fava

I padroni – oltre a un Santapaola ormai dentro i salotti della città – sono i Cavalieri del lavoro Carmelo Costanzo, Mario Rendo, Gaetano Graci e Francesco Finocchiaro. “I quattro cavalieri dell’Apocalisse”, è il titolo sulla copertina de I Siciliani, giornale fondato da Pippo Fava che è l’unica voce libera di Catania e che fa nascere una generazione di cronisti che in città non si era mai vista. Giornalista ma anche drammaturgo, scrittore, sceneggiatore, pittore, Pippo viene ucciso la sera del 5 gennaio 1984 a un passo dal teatro Stabile. Mandanti Benedetto Santapaola e suo cognato Aldo Ercolano. Non si è mai scoperto se avessero agito per conto proprio o per conto terzi.

I picciriddi puniti

Santapaola è già una star mafiosa che brilla di luce propria. Alleato dei Corleonesi di Totò Riina ma solo per prudenza e convenienza, quel contadino dalle scarpe sporche di fango sceso da Corleone non è mai piaciuto al boss che ha sempre voluto fare soldi. Il rumore non porta denaro ma guai. E arrivano. Le coperture cedono.

Il comandante dei carabinieri di Catania arrestato, giudici sfiorati da sospetti. Iniziano a diventare pubbliche anche le atrocità dello “zio Nitto”. Come quella dei quattro picciriddi scomparsi e sotterrati nei feudi di Mazzarino a metà anni Settanta. Ragazzini che sopravvivono di furtarelli.

Un giorno portano via la borsetta della madre di Santapaola. Li prelevano, li torturano, li trasportano a cento chilometri da Catania e dopo due giorni senza acqua e senza cibo seppelliscono Giovanni La Greca, Riccardo Cristaldi, Lorenzo Pace e Benedetto Zuccaro. I primi tre avevano quattordici anni, il quarto ne aveva appena compiuti tredici.

Vent’anni dopo, nel settembre del 1995 quando Santapaola è già da molto tempo in carcere, carnefici e vittime si scambiano i ruoli. Qualcuno bussa alla porta di casa Santapaola, sull’uscio c’è Carmela Minniti, la moglie. È tale Giuseppe Ferone, gli scarica addosso l’intero caricatore. Benedetto Santapaola è in galera ma la saga della sua famiglia continua.

Come prima e più di prima. Hanno imparato bene i suoi fuori, lui è sempre il capo anche se è dentro. E quello che accade nella mafia di Catania negli anni dopo le stragi (Santapaola sarà anche condannato per l’uccisione del giudice Giovanni Falcone) farà scuola.

L’alternativa a Riina

Nasce un “modello” catanese che salverà il sistema criminale siciliano dopo il 1992. È l’alternativa alla politica stragista e dissennata di Corleone, gli affari legali e illegali che si confondono, un futuro che (per i clan catanesi) viene dal passato.

È molto ben raccontato nei libri di Claudio Fava questo stile mafioso dell’altra parte della Sicilia, stupidamente snobbata dall’aristocrazia mafiosa palermitana, considerata in qualche modo mafia minore.

E invece quella di Catania si è guadagnata una “rispettabilità” che Palermo non ha, fa traffici ed estorsioni ma con qualcuno che nel frattempo si è infilato il vestito buono e non si fa riconoscere, è ramificata a Messina, a Roma, nel centro Italia come ci racconta l’operazione dei carabinieri dell’altra notte. E anche fuori. C’è un quartiere a Malta dove si parla solo catanese o calabrese.

A Malta si parla catanese

Ci sono emissari che partono da Catania con pacchi di soldi, s’imbarcano sul catamarano a Pozzallo, dopo poco più di cento minuti sono a La Valletta a riciclare. Ci sono i casinò, ci sono trafficanti d’armi, ci sono ex ufficiali che erano al servizio delle polizie segrete di Gheddafi. È tutto denaro catanese che torna in Sicilia con prestanome maltesi. Che torna a Catania. Una mafia a strati, difficilmente prendibile.

Uno dei massimi esperti della materia è Sebastiano Ardita, l’ex rappresentante del Consiglio superiore della magistratura che è di Catania e che a Catania è stato lungo sostituto procuratore della Repubblica.

Negli ultimi anni alla mafia sotto il vulcano a dedicato due libri, Catania bene e Cosa Nostra S.p.A.. Scrive: «È un pericolosissimo modello di governo criminale che sa essere spietato, ma anche politico e duraturo. È la Cosa nostra che ha vinto e che è difficile disvelare tutta intera». Una mafia flessibile, meno ortodossa, più pronta alle sfide di domani. Una mafia costruita a immagine e somiglianza del suo grande capo, Benedetto Santapaola, l’ottantaquattrenne boss che qualcuno non sa più se è vivo o se è morto.

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