Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, la grande caccia ai mafiosi dopo la cattura di Totò Riina. Uno dei magistrati è Alfonso Sabella. Le indagini sono diventate poi un libro, “Cacciatore di mafiosi”.

Le Alpi innevate all'alba sono uno spettacolo straordinario. Non c'è una nuvola e il mio posto d'osservazione è il migliore possibile: a 7000 metri, seduto tra i piloti di un Falcon 30 della Compagnia aerea italiana. Il comandante mi sta illustrando le modalità dell'atterraggio nello scalo di Lugano. Bisogna fare attenzione, nel cominciare la manovra di avvicinamento all'aeroporto, alle correnti d'aria presenti in una gola in cui ci si deve infilare provenendo da sud. E noi siamo partiti proprio da sud, da Roma, alle cinque del mattino del 14 gennaio 1994.

Dietro, nella cabina passeggeri, insieme a una mezza dozzina di carabinieri del Ros, c'è Salvatore Cancemi, già capomandamento di Porta Nuova, ora collaboratore di giustizia. No, non è seduto come i militari dell'Arma su una delle morbide poltrone di pelle che, con lucide lampade d'ottone e tavolini in radica di noce, arredano il lussuoso aeroplano.

È steso sul pavimento, con la faccia in giù, terrorizzato dall'idea di aver abbandonato il suolo terrestre e di trovarsi sospeso in aria. «Santa Rosalia, Santuzza bedda, aiutami tu!» ripete supplicando, tra i sorrisi, nemmeno tanto repressi, dei carabinieri che certamente pensano all'assurdità della cosa. Un uomo che ha avuto la determinazione e il coraggio di uccidere decine e decine di persone, che è stato uno degli ideatori e degli esecutori della strage di Capaci, adesso trema come una foglia per un viaggio aereo di poco più di un'ora. La nostra missione è una sorta di caccia al tesoro.

Dobbiamo recuperare quattro milioni di dollari in contanti, che, secondo Cancemi, erano stati sepolti, nel 1984, dieci anni prima, nelle campagne del Canton Ticino. Dollari provenienti dal traffico di stupefacenti. Eroina già raffinata importata da Cosa nostra dal Libano o dalla Turchia e spedita negli Stati Uniti via mare. La droga era stata sigillata all'interno di alcune casseforti appositamente acquistate da Salvatore Riina, imbarcate su una nave da carico e inviate, con tanto di bolle d'accompagnamento e documentazione doganale, a Boston. Le chiavi dei forzieri, però, erano giunte in America separatamente, con un volo di linea.

Totuccio Riina aveva già incassato la sua quota: due milioni di dollari. Degli altri quattro che stavamo cercando, due spettavano ad Antonino Rotolo, uomo d'onore della famiglia di Pagliarelli, e gli ultimi due erano la parte di Salvatore Cancemi.

E dire che nel suo primo interrogatorio, il 23 luglio 1993, lo stesso Cancemi aveva dichiarato di non aver mai avuto a che fare con la droga. Era proprio strano Salvatore Cancemi, o meglio Totò Caserma come lo chiamavano sprezzanti i capimafia da qualche mese, da quando, latitante, aveva bussato, appunto, a una caserma dei carabinieri dichiarando di voler collaborare con lo Stato.

Si era presentato dicendo di temere per la sua vita e che preferiva finire in carcere piuttosto che ucciso per ordine di Bernardo Provenzano. 'U zu Binu avrebbe decretato la sua morte perché si sarebbe opposto a un presunto progetto dello stesso capomafia di Corleone di uccidere il Capitano Ultimo, l'ufficiale dei carabinieri «responsabile» della cattura di Totò Riina.

Nessuno dei miei colleghi che aveva seguito lo sviluppo delle prime dichiarazioni di Cancemi credeva a quel movente, ma ogni ipotesi alternativa sulle ragioni che avevano indotto il capo latitante di un mandamento importante come quello di Porta Nuova, l'erede di Pippo Calò, a costituirsi si traduceva in una mera supposizione e non trovava conferme.

Gli attentati stragisti in “Continente”

Anni dopo mi sono convinto che la consegna di Cancemi fosse da mettere in qualche modo in relazione con gli attentati stragisti di Milano e Roma della notte tra il 27 e il 28 luglio 1993 e con la fallita strage dell'Olimpico dell'ottobre successivo. Attentati dai quali forse il boss di Porta Nuova voleva tirarsi fuori o che, addirittura, avrebbe provato a impedire. Ma anche questa è una mera ipotesi fondata solo su riflessioni logiche e su qualche coincidenza temporale. Fatto sta che raramente una collaborazione con la giustizia si era rivelata tanto spontanea quanto reticente. Cancemi si presentava sostanzialmente come un agnellino finito senza sua colpa nella tana dei lupi. Negava di avere eseguito omicidi, estorsioni, traffici di droga. Non una parola sulla strage di Capaci che pur aveva contribuito a deliberare e in cui aveva svolto un ruolo di esecutore materiale.

I suoi interrogatori erano praticamente tutti uguali. Le notizie che sapeva erano sempre frutto di

confidenze ricevute dal suo «collega» Raffaele Ganci, capomandamento della Noce. Quanto ai fatti del suo territorio si presentava come un mero portavoce della volontà di Pippo Calò. «Non so nulla di quell'omicidio, l'avrà deliberato Calò.» «Ma è stato commesso nel suo mandamento e Calò è detenuto dal 1985. Per le regole di Cosa nostra lei lo doveva sapere!» «Si saranno dimenticati di informarmi» era la replica di Cancemi che spostava altrove lo sguardo per non incrociare i nostri, perplessi e increduli.

I primi mesi della sua collaborazione erano stati caratterizzati da centinaia di contestazioni e da decine di confronti con altri affidabili collaboratori che, inutilmente, cercavano di fargli tornare alla mente episodi delittuosi cui Cancemi aveva partecipato in prima persona.

Niente da fare. Le uniche concessioni che ci aveva fatto riguardavano qualche sua rara partecipazione a traffici di droga, ma sempre con ruoli di secondo piano. La sua presenza nelle varie raffinerie che, in quegli anni, operavano nel Palermitano era ogni volta casuale. Nessun omicidio, nessuna richiesta di pizzo: no, non era lui il «Tot. Canc.» indicato nel libro mastro delle estorsioni dei Madonia di Resuttana. Quella abbreviazione non riguardava certo «Totò Cancemi»: forse Nino Madonia voleva scrivere «totale cancellato»! E noi dovevamo credergli...

Una prima svolta si era verificata il 1° novembre 1993. Messo alle strette dalle dichiarazioni di Santino Di Matteo che lo accusava di aver partecipato personalmente alla strage di Capaci, aveva cominciato, sia pur lentamente, a confermare le sue responsabilità nel gravissimo attentato del 23 maggio 1992.

Negli interrogatori successivi Cancemi aveva fatto dei piccoli passi avanti, ammettendo qualche altro delitto. Ma si trattava veramente di inezie rispetto ai crimini che, per quanto ci risultava, doveva aver commesso.

Il 9 novembre era entrato in palese contraddizione con le sue stesse dichiarazioni e i miei colleghi che lo interrogavano avevano perso la pazienza. Avevano messo correttamente a verbale l'ennesima contestazione e gli avevano detto, chiaro e tondo, che di un collaboratore così la procura di Palermo non sapeva che farsene.

Cancemi, allora, aveva tirato fuori quella che per lui doveva essere la carta vincente: «Per dimostrarvi che sono attendibile, posso farvi recuperare alcuni milioni di dollari in contanti che ho sepolto in Svizzera. Ma per farlo mi dovete portare sul posto».

Come si fa a credergli ancora? Perché, a distanza di quattro mesi dalla sua consegna, Totò Caserma parla di questa storia? Vuole forse «comprarsi» la collaborazione? O, più semplicemente, vuole essere condotto all'estero per qualche ragione oscura? Ha capito che, dopo il suo coinvolgimento nella strage di Capaci, non può più mantenere un basso profilo di collaboratore e vuole tentare una fuga? Di quali appoggi può disporre in Svizzera?

Queste erano le legittime domande e perplessità dei miei colleghi a Palermo.

copertina libro sabella cacciatore

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