«Non rimanga sorpreso se chi le scrive è uno degli agenti della polizia penitenziaria imputato per i fatti del 6 aprile 2020 nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere».

Inizia così la lettera di un poliziotto penitenziario, del quale non riveleremo l’identità, che ha deciso di raccontare la sua storia e i fatti accaduti in quella giornata buia per la democrazia. In piena emergenza pandemica, il 6 aprile 2020, 283 agenti della polizia penitenziaria sono entrati all’interno dell’istituto Francesco Uccella, nel reparto Nilo.

Per quattro ore i detenuti sono stati picchiati, un pestaggio di stato al quale è seguito il depistaggio finalizzato a cancellare le prove di quanto accaduto. A distanza di oltre due anni da quella giornata di sangue, botte e umiliazioni è iniziato un processo che vede imputate 105 persone per tortura, lesioni, abuso d’autorità, depistaggio, falso e altri reati.

Tra questi imputati 77 sono stati sospesi dal servizio dal giugno 2021, quando su richiesta della procura locale, il giudice Sergio Enea aveva autorizzato gli arresti e altre misure cautelari. Altri, invece, sono rimasti in servizio nonostante rispondano di oltre 30 capi di imputazione ottenendo anche promozioni.

«Tutto questo non è giusto, io e altri 14 agenti non siamo stati raggiunti da misure cautelari e siamo stati sospesi dal ministero mentre ci sono dirigenti mai sospesi che sono stati anche destinatari di nuovi incarichi e che rispondono di decine di capi di imputazione», dice il poliziotto.

La promossa e i sospesi

Il riferimento è, tra gli altri, a Tiziana Perillo, che risponde di una trentina di capi di imputazione, mai sospesa e che, di recente, è stata nominata dalla provveditrice regionale, Lucia Castellano, come consigliera di fiducia per l’attuazione del codice contro le molestie sessuali.

Il poliziotto e gli altri, invece, sono stati sospesi perché colpevolmente presenti in reparto. «Il loro riconoscimento non è controverso, ma, come emerge, dalle immagini del circuito di videosorveglianza e dalle dichiarazioni dei detenuti escussi, essi erano solo presenti ai fatti, ma non hanno compiuto alcun atto di violenza ai danni dei detenuti medesimi», si legge nelle carte processuali.

Una quindicina di agenti dunque non ha partecipato alle violenze, ma non hanno mai denunciato l’accaduto nonostante vi abbiano assistito. Alcuni non erano in servizio e sono stati richiamati proprio per quell’operazione, altri erano già all’interno dell’istituto.

Il governo, che vuole riformulare il reato di tortura, vorrebbe rivedere le sospensioni, ma il rischio è che si peggiori la situazione, tenuto conto che nel momento in cui sono state disposte – all’epoca c’era il governo Draghi - si è proceduto applicando una disparità di trattamento.

«La procura non ha determinato alcuna misura cautelare nei nostri confronti, ma restiamo sospesi dal servizio, per disposizione del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, fino a data imprecisata. E la parola “sospeso” dice di più di una disposizione amministrativa: su questa sospensione si appende una divisa, si consegna un distintivo, si mettono in archivio anni di servizio onesto, quando si è cercato di conservare, soprattutto dinanzi a situazioni difficili, umanità ed equilibrio», dice il poliziotto. Ma come è possibile parlare di umanità ed equilibrio considerando quanto accaduto?

La difesa dell’imputato

«Ho fatto tantissime operazioni, a Santa Maria non è mai successo niente tranne quel giorno, mai uno schiaffo, mai un’esagerazione. Il 6 aprile sono arrivati gli agenti dall’istituto di Secondigliano con caschi e manganelli, non pensavo li facessero entrare e, invece, all’improvviso ce li siamo visti ai piani. I funzionari, i nostri dirigenti hanno sbagliato tutta l’operazione. La perquisizione si doveva fare, il reparto era allo sbando, ma non così, non così», dice l’agente. Ma perché nessuno ha fermato quelle quattro ore di massacro? «Non lo so, come facevo a mettermi contro Colucci (uno dei vertici imputati, ndr) e gli altri superiori? Io non sapevo cosa fare, niente. Guardavo quello che accadeva», risponde.

Attualmente chi è sospeso guadagna la metà del salario previsto, c’è chi vive con mille euro al mese da un anno e mezzo. Nonostante la situazione, rimane un fatto: nessuno ha denunciato quanto è accaduto quel giorno. «A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca», diceva Don Lorenzo Milani. «Pensavo che lo avrebbero fatto i nostri superiori, che avrebbero fatto luce su tutto quello, su quella giornata orribile», dice l’agente. In ogni caso, si tratta di omertà, di silenzio complice rispetto ai fatti. I presenti avrebbero potuto denunciare anonimamente le violenze ma non lo hanno fatto. «Lo so, lo so, ho capito l’omertà, ma è successa una cosa troppo grande», aggiunge.

Al processo

Il poliziotto ammette di aver cercato di fermare le violenze, di dire basta: «Ci ho provato, ma era inutile. Era una baraonda, non ci ho capito niente, non sapevo che fare. Stavo lì durante le violenze, è vero, ma non ho partecipato. Avrei dovuto picchiarmi con i colleghi, non lo so, non lo so».

Ma cosa resta addosso a un poliziotto penitenziario dopo quella giornata di orrori? «A Santa Maria c’erano al massimo una decina di facinorosi, gli altri non c’entravano niente, niente, e si poteva facilmente affrontare la situazione, ma non in quel modo. I superiori hanno fatto un disastro». Delle risposte che darà al processo durante l’interrogatorio ne discuterà «con l’avvocato. Rispondo di un paio di contestazioni, solo della mia presenza quel giorno, ne uscirò assolto».

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