In questi mesi abbiamo spesso sentito dire che la pandemia ha colpito tutti, ma non tutti sono stati colpiti dalla pandemia allo stesso modo. L’età, il genere, il livello di istruzione, la qualifica professionale, le risorse economiche a nostra disposizione non solo raccontano “come stavamo” prima del Covid-19, ma anche gli strumenti che abbiamo potuto mettere in campo per affrontarlo, e i segni che lascerà nel futuro. E le donne? Come sono entrate e come stanno navigando nella crisi? È presto per una valutazione definitiva, ma il monitoraggio di cosa sta accadendo è cruciale proprio perché la risposta non è scritta e in parte dipenderà dagli strumenti che verranno messi in campo nelle prossime settimane.

Il mondo di ieri

Il mondo prima della pandemia si caratterizzava per ampie disuguaglianze di genere. In Italia più che altrove in Europa. A gennaio 2020 – secondo i dati Istat - il tasso di occupazione femminile in Italia era circa pari al 50 per cento nella classe di età 15-64 anni. Una donna su due lavora, il valore più alto di sempre, ma eravamo comunque penultimi in Europa.

Le donne non sono però tutte uguali. Le differenze nel tasso di occupazione femminile su base geografica sono enormi: a partire dal 2000, il Nord è in linea con gli altri paesi dell’Ocse, l’organizzazione dei paesi industrializzati. Al Sud, invece, soltanto una donna su tre lavora: l’occupazione delle donne al Sud nel 2018 era inferiore a quella delle donne al Nord nel 1977.

Ci sono poi differenze per età: donne più giovani partecipano di più al mercato del lavoro, ma nella classe di età 30-34 la differenza nei tassi di occupazione tra uomini e donne è addirittura più alta di quella nel gruppo 15-64 anni: non sarà solo il passare del tempo e l’ingresso nel mercato del lavoro di nuove generazioni che cancellerà la disuguaglianza di genere.

I livelli di istruzione rafforzano la partecipazione femminile: il tasso di occupazione femminile è poco sotto il 77 per cento per le donne con istruzione terziaria, ma non supera il 30 per cento per le donne con titolo di scuola primaria o secondaria inferiore, uno dei valori più bassi in tutti i paesi europei.

Penalizzate dalla maternità

Poi c’è la maternità, un momento cruciale per le donne lavoratrici. Secondo i dati dell’Ispettorato del lavoro relativi al 2019, il 73 per cento delle dimissioni dal lavoro sono di donne. L’80 per cento per difficoltà di conciliazione tra vita privata e professionale. Le scelte e le difficoltà che le donne si trovano ad affrontare all’indomani della nascita di un figlio sono ancora una delle fonti principali di disuguaglianza.

Scende la partecipazione femminile al mercato del lavoro e anche le madri che non abbandonano soffrono una sensibile riduzione nei redditi, a fronte di una sostanziale invarianza di quelli dei padri. La chiamano child penalty – il costo sul mercato del lavoro della nascita di un figlio – e non è esclusiva dei paesi mediterranei. Anche nei paesi scandinavi, a cui spesso guardiamo per imparare qualcosa sull’uguaglianza di genere, le madri pagano una penalità tra il 21 e il 26 per cento del reddito da lavoro rispetto ai padri.

In Italia, a quindici anni dalla maternità, la perdita nei salari annuali determinata dalla nascita di un figlio è pari al 53 per cento, principalmente perché il numero di settimane di lavoro si riduce.

Il tempo di lavoro non è solo quello “sul mercato”, perché c’è anche il lavoro “non pagato”, quello di cura e domestico. E qui le differenze sono ancora più ampie, con le donne che hanno un carico di lavoro di cura superiore a quello degli uomini, che le porta complessivamente a destinare più minuti al lavoro che al tempo libero rispetto agli uomini. Ci sono fattori culturali e norme sociali che possono contribuire a determinare questa asimmetria: i dati di Eurobarometro ci dicono che il 51 per cento degli Italiani ritiene che il ruolo principale della donna sia occuparsi della famiglia e dei figli (la media in Europa è il 44 per cento; in Svezia l’11 per cento). Le donne, inoltre, hanno retribuzioni mediamente inferiori e quindi, all’interno delle famiglie, calcoli di convenienza portano ad individuare nelle donne i soggetti che devono farsi maggiormente carico del lavoro di cura e domestico.

È su questo terreno particolarmente accidentato per le donne italiane che arriva il Covid-19 e le esperienze passate mostrano che le crisi economiche hanno conseguenze diverse per uomini e donne.

Una crisi meno maschile

La crisi del 2008 ha aggredito con maggiore violenza i settori industriali a più alta occupazione maschile, come la manifattura e le costruzioni. Nella crisi del Covid-19 i settori più esposti sono quelli ad alto impiego di manodopera femminile, come anche denunciato dall’Ilo (organizzazione internazionale del lavoro) in un policy brief di maggio 2020.

Le donne sono più presenti nei settori cosiddetti sociali ad alto contatto fisico, come commercio all’ingrosso e al dettaglio, ospitalità e turismo, ristorazione, settori fortemente soggetti alle limitazioni imposte dal distanziamento sociale. In questo l’Italia non è diversa dagli altri paesi ad alto reddito. Alla diversa composizione settoriale della forza lavoro maschile e femminile si aggiunge la rivoluzione nell’organizzazione dei tempi di cura all’interno delle famiglie a causa della lunga chiusura delle scuole e di tutti i servizi educativi. E qui per l’Italia lo shock è stato più forte che altrove, essendo stato più lungo il periodo di chiusura e innestandosi su una divisione dei compiti di cura che già sfavorisce fortemente le donne.

All’inizio della pandemia sono state individuate le attività essenziali che potevano proseguire, mentre il resto dell’economia si fermava. Donne e uomini si distribuiscono in maniera pressoché paritaria all’interno delle attività essenziali: su 100 lavoratori, 51 sono uomini e 49 sono donne e, quando si considerano le fasce di età 40-49 e 50-59 anni, l’occupazione femminile supera addirittura quella maschile.

Come evidenzia un recente contributo dell’Ocse, la presenza quasi paritaria nelle attività essenziali deriva dall’alto impiego delle donne nell’istruzione e nelle professioni sanitarie e assistenziali. Nelle attività non essenziali, invece, domina la forza lavoro maschile, che durante il lockdown è rimasta bloccata in percentuali più elevate. Durante la fase uno il lavoro delle donne sembra quindi aver “retto” di più. Con la ripartenza il segno cambia. Le riaperture di maggio, con manifattura, costruzioni e commercio all’ingrosso riavviati per primi, ha interessato per il 72 per cento gli uomini.

Parità di fronte al disastro

I dati pubblicati da Istat a inizio settembre danno indicazioni sull’esito della combinazione di questi diversi fattori: il tasso di occupazione maschile e quello femminile rispetto allo scorso anno sono calati in ugual misura. Inoltre, diversamente da quanto documentato da Adam-Prassl e coautori per il Regno Unito, analisi condotte con Salvatore Lattanzio sui dati amministrativi di un campione di comunicazioni obbligatorie dicono che in Italia essere donna non è associato ad una maggiore probabilità di perdere il lavoro nelle prime settimane dell’emergenza Covid. Blocco dei licenziamenti ed estensione nell’utilizzo della Cassa integrazione hanno garantito una copertura che non rivela ancora pienamente come si muoverà il mercato del lavoro in loro assenza o con una loro limitazione.

Nei prossimi mesi, quando nuovi dati saranno disponibili e si potranno condurre valutazioni più approfondite, gli effetti diretti della pandemia sul lavoro di uomini e donne saranno più chiari. Ma gli effetti complessivi della pandemia dipenderanno dalle politiche che verranno messe in atto per affrontarla e quanto orientate saranno all’uguaglianza di genere.

Le politiche del dopo-pandemia devono concentrarsi in maniera convinta su organizzazione dei tempi di lavoro e di cura, volgendo l’attenzione anche sulle imprese. Disponibilità di servizi pensati come luoghi per lo sviluppo di capitale umano dei bambini, congedi di paternità più estesi, congedi parentali più equamente divisi tra i genitori possono intervenire sugli equilibri tra tempo di lavoro e tempo di cura, promuovendo il cambiamento culturale necessario a trasformare il lavoro delle donne da accessorio e sacrificabile a centrale per il benessere della società.

Qualcosa deve cambiare anche all’interno delle imprese. Le politiche di remunerazione e carriera delle imprese sono cresciute di importanza nello spiegare il differenziale salariale di genere. Favorire la trasparenza rendendo più vincolanti gli obblighi di comunicazione dei dati sulle retribuzioni e sugli occupati uomini e donne è una strada da percorrere per attaccare il differenziale di genere nel mercato del lavoro.

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