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La vita solitaria diventa un tormento perché si ha bisogno di toccare, ma toccare sé stessi a un certo punto non è più soddisfacente e sufficiente. Allora si comincia a rubare con occhiate furtive le nudità dei compagni di cella mentre si spogliano o si vestono. Inizia il corteggiamento, il gesto affettuoso, la parola affettuosa, il resto è un epilogo scontato». A parlare è un detenuto delle carceri italiane, la sua testimonianza è raccolta dal medico Francesco Ceraudo, da decenni punto di riferimento della medicina penitenziaria, nel suo libro La sessualità in carcere.

La sessualità in cella è da sempre negata dalle istituzioni, è una forma supplementare della pena che si vuole raccontare abbia smesso di essere corporale ma che in realtà continua a esserlo. Per affettività e sesso non c’è spazio in prigione e se questo incide sulla percezione sensoriale del detenuto, in particolare quella tattile con lunghi anni che scorrono senza toccare alcun corpo, può portare anche a percorsi di destrutturazione della propria identità individuale e sociale che portano, in certi casi, alla cosiddetta “omosessualità coatta”.

Un’espressione della sessualità del tutto naturale in un contesto normale può innescare spirali di svilimento e disperazione personale in un luogo come il carcere dove non c’è la libertà di scelta. Tanto che può sfociare anche in violenza. Sono migliaia gli stupri che occorrono ogni anno in cella ma le autorità continuano a chiudere gli occhi: non esistono numeri ufficiali al riguardo, solo quelli raccolti dal caparbio lavoro delle ong.

Il sesso come diritto

Da qualche settimana in Italia si riparla di sessualità in carcere, dopo che la commissione Bilancio del Senato ha realizzato uno studio di fattibilità su una proposta di legge presentata prima dal Consiglio regionale della Toscana e poi da quello del Lazio a proposito, tra le altre cose, della creazione di spazi ad hoc dove permettere ai detenuti di esercitare il proprio diritto umano universale all’affettività e al sesso. Della creazione di questi spazi si parla da decenni.

Nel 2012 persino la Corte costituzionale si è pronunciata, sottolineando come l’astinenza sessuale imposta in carcere si scontri con i princìpî costituzionali e costituisca «un trattamento contrario al senso di umanità». Sono molti i paesi dove questo diritto è riconosciuto, dalla Francia all’Olanda, passando per i più insospettabili Russia, India e Messico. In Italia non si riesce a superare lo scoglio politico e questo fa sì che oltre 54mila persone, il numero attuale di detenuti in Italia a cui vanno aggiunti i loro partner all’esterno, siano costretti alla castità di stato, tranne nei rari casi in cui possono beneficiare dei permessi premio.

Come sottolinea Ceraudo, «la mancanza di sesso in carcere è mutilazione fisica, violenza, disperazione, crudeltà, brutalità. L’astinenza dal sesso è la pena nella pena». Una limitazione della libertà personale che non si esaurisce in sé stessa, ma che con il passare del tempo comporta, come ha spiegato il sociologo Donald Clemmer, lo sviluppo di tutta una serie di “anormalità sessuali” – intese come deviazioni dalla propria identità e abitudine – che da una parte possono garantire la sopravvivenza fisiologica temporanea e dall’altra amplificare il ciclo della sofferenza individuale.

I detenuti sono trattati alla stregua di ragazzini, sorvegliati 24 ore su 24, costretti a chiedere il permesso per fare qualsiasi cosa attraverso quella che proprio in gergo infantile viene chiamata “domandina”. E l’erosione progressiva dell’autodeterminazione finisce per abbracciare anche la sfera erotica, con l’astinenza sessuale indotta che può condurre a forme di masturbazione di tipo adolescenziale – a metà tra ossessione e paura di essere scoperti.

«In carcere non hai momenti di intimità, paradossalmente gli unici che riuscivo a ricavarmi erano quando mi punivano nelle celle di isolamento», spiega Carmelo Musumeci, che in cella ci è stato per 25 lunghi anni prima di ottenere la semilibertà. «A quel punto potevo viaggiare con la fantasia senza essere osservato dai compagni o con la paura dei controlli delle guardie, che aprono lo spioncino e verificano spesso cosa stai facendo riducendo la libertà di azione. Tra le tante cose che mancano in carcere c’è proprio la riservatezza».

Musumeci in cella è riuscito ad aggrapparsi ai ricordi della sua compagna che lo aspettava fuori e che a sua volta, pur senza aver commesso alcun crimine, era stata condannata dallo stato alla castità. «Fantasticavo di baciarla e accarezzarla», continua, «in carcere si fanno lunghi viaggi di fantasia, non si ha altra scelta che usare i ricordi, che però con il passare degli anni si affievoliscono. Questo può portare a uno stato di menomazione».

Una condizione in cui alcuni riescono a resistere. Ma c’è chi non ce la fa perché, come scrivono diversi detenuti nel quaderno L’amore a tempo di galera, «il sesso solo pensato mutila, inibisce e disadatta», causando «nocive ricadute stressanti di ordine sia fisico che psicologico». Da qui si finisce per elaborare nuovi piani di fuga dalla soppressione affettiva e sessuale, compresa la ricerca dei corpi dei propri compagni di prigionia, in modo più o meno volontario e consensuale.

Secondo uno studio sulle carceri francesi dello psicoanalista J. Lesage de la Haye, realizzato quando nel paese ancora non erano state introdotte le stanze dell’amore, almeno un terzo dei detenuti uomini ha avuto rapporti omosessuali regolari o occasionali durante la prigionia. In Italia l’ultimo documento sul tema è un questionario del 1989, in cui il 30 per cento dei rispondenti ha dichiarato di aver desiderato rapporti omosessuali durante la detenzione. La pulsione sessuale all’inizio resta sopita, poi possono emergere stati di sovraeccitazione che portano a quella masturbazione compulsiva che Ceraudo definisce «la vera regina della sessualità carceraria».

L’insoddisfazione a lungo andare può portare allo sgretolamento di nuove barriere, a un adattamento della sessualità all’ambiente in cui si è costretti a vivere. Vengono così a crearsi relazioni tra i detenuti in quella che anche la Corte costituzionale nella pronuncia del 2012 definisce «omosessualità ricercata o imposta» e che altri chiamano «temporanea».

Meglio che niente

«In carcere capitano rapporti che vanno al di là dei confini dell’amicizia, sia tra i detenuti uomini che nelle sezioni femminili. Nelle sezioni di alta sicurezza questi fenomeni sono più rari mentre altrove capitano più di frequente», racconta Musumeci. Sandro Bonvissuto, scrittore che conosce bene il mondo carcerario, spiega che «l’omosessualità in carcere può essere una strategia di sopravvivenza, che non riguarda tutti. Di fronte all’astinenza sessuale imposta c’è chi la sopporta, chi torna all’onanismo adolescenziale, chi ripensa le proprie scelte sessuali e chi arriva direttamente a sperimentare l’amore omosessuale. È una terra di nessuno in cui ognuno se la sbriga come riesce e dove a monte c’è il rifiuto istituzionale di comprendere un’esigenza fisiologica come quella sessuale».

Secondo le testimonianze dirette la ricerca va spesso verso chi nei lineamenti, negli odori, nelle sensazioni può richiamare in qualche modo figure a cui si era legati all’esterno del carcere e che il tempo e le sbarre hanno provveduto a rimuovere dalla memoria, ma non dall’inconscio. «Con fatica cerchiamo nel corpo di un altro uomo la donna», racconta un detenuto dichiaratosi eterosessuale che è arrivato ad avere esperienze omosessuali in carcere.

Un percorso difficoltoso, che può rilevare nuovi lati della propria sessualità o che si traduce in processi di profonda spersonalizzazione e di ridefinizione violenta della propria individualità. «L’omosessualità in carcere è così diffusa perché è compensatoria, ma non si può pensare che non abbia conseguenze sul piano psicologico», spiega Ceraudo, «per una persona eterosessuale forzarsi a un comportamento omosessuale costituisce una violenza, una frustrazione e una caduta di autostima, in fondo un’umiliazione, che induce spesso pesanti sensi di colpa».

Se in molti casi quella dei rapporti omosessuali è una scelta fittiziamente consapevole e consensuale, in altri assume le forme dell’abuso e della sopraffazione esplicita, con detenuti costretti ad avere rapporti con compagni più potenti nelle gerarchie penitenziarie anche in modo continuativo e regolare. Secondo l’ultimo studio condotto sul tema, che però non a caso risale a oltre dieci anni fa, nelle prigioni italiane si verificano circa 3mila stupri all’anno e proprio queste violenze e la schiavitù sessuale sono all’origine del 40 per cento dei suicidi penitenziari.

L’amore fa paura

Numeri che si potrebbero ridurre offrendo ai detenuti la possibilità di vivere liberamente e consapevolmente la propria sessualità. Ma a prevalere restano il bigottismo cattolico di un paese che considera il sesso un tabù anche nel mondo di fuori, e lo spirito vendicativo di una società che vede nell’azzeramento di tutti i diritti un elemento imprescindibile della condanna.

«Il carcere ha paura dell’amore», chiosa Musumeci. «Per i detenuti il mantenimento delle relazioni affettive e sessuali può incentivare il cambiamento, la rieducazione, e a beneficiarne sarebbero tutti. Per la mentalità comune però se hai commesso un reato non hai diritto neanche a una carezza».

 

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