Nel 1991 la cardiologa Bernardine Healy pubblicò un articolo sul New England Journal of Medicine che descriveva la discriminazione nella gestione delle patologie cardiovascolari delle donne. L’articolo titolava “La sindrome di Yentl”, facendo riferimento a un famoso racconto di Isaac Singer (e al film che ne fu tratto, con Barbara Streisand interprete principale) dove si narrava la storia di una giovane donna ebrea che aveva dovuto fingere di essere un uomo per poter studiare ed essere ammessa alla scuola rabbinica.

Nel suo editoriale la Healy commentava due ricerche pubblicate sullo stesso numero della rivista che documentavano come le donne con dolore toracico venissero studiate meno e con esami meno adeguati degli uomini e come in caso di infarto venissero sottoposte a interventi di angioplastica o by-pass coronarico molto meno frequentemente.

A quell’epoca i medici erano per la maggior parte uomini e non era irragionevole pensare che sotto queste differenze si nascondesse una, seppur inconsapevole, componente di discriminazione. Bernardine Healey non lo nascondeva ai suoi lettori ed è anche per questa ragione che molti la considerano la madre della medicina di sesso e genere.

Purtroppo, a distanza di oltre trent’anni, le differenze che la Healy aveva segnalato non sono scomparse. Nonostante la crescente attenzione al problema le donne con infarto continuano a essere trattate meno aggressivamente e a morire più degli uomini.

Biologia e società

Quello dell’infarto è solo un esempio tra i tanti che documentano come le differenze biologiche (genetiche, ormonali, metaboliche) e di genere (psico-socio-culturali) giochino un ruolo importante nel determinare le manifestazioni di malattia e la risposta alle cure. Se nel caso dell’infarto, come in tanti altri casi, sono le donne a soffrire maggiormente le discriminazioni di genere, esistono altre situazioni nelle quali sono gli uomini a essere svantaggiati.

Contraggono più frequentemente il cancro, hanno una maggior mortalità per suicidio, sono più esposti alle malattie infettive, vedono poco riconosciuta, e ancor meno trattata, l’osteoporosi, malattia che viene comunemente (e scorrettamente) considerata un problema tipicamente femminile.

Non solo maschi e femmine, ma anche le persone di genere non binario sono interessate dal fenomeno. Anche in questo caso gli aspetti biologici, come per esempio quelli legati all’uso di dosi elevate di estrogeni o di testosterone in chi si sottopone a un percorso di transizione di genere, si associano agli aspetti psico-socio-culturali legati a pregiudizi, discriminazioni, bullismo, difficile inserimento lavorativo.

Tra i temi che negli ultimi decenni sono stati affrontati dalla medicina di genere tre hanno un particolare rilievo culturale.

Il primo è l’influenza degli stereotipi della mascolinità e della femminilità. Gli uomini si espongono maggiormente ai fattori di rischio (fumo, droghe, alcol, guida pericolosa ecc.), si sottopongono più raramente a screening di prevenzione, tardano a chiedere aiuto al medico in caso di problemi. Le donne sopportano un maggior carico nell’assistenza familiare che (come si è visto durante la pandemia) può facilitare l’insorgere di ansia e depressione, ma che è soprattutto causa di una minore autonomia economica e lavorativa, due aspetti che a loro volta correlano inversamente con i livelli di salute.

Una ricerca degli uomini

Il secondo tema è quello di una ricerca clinica che ha studiato per decenni prevalentemente individui di sesso maschile, applicando poi i suoi risultati indifferentemente a uomini e donne. Dati recenti documentano invece che uomini e donne rispondono in modo diverso (per efficacia ed effetti collaterali) agli antidolorifici, agli antidepressivi, ai nuovi farmaci antidiabetici, ad alcuni antitumorali, alla profilassi cardiovascolare con aspirina e a molti altri principi attivi.

Solo recentemente a livello internazionale sono state proposte delle regole per spingere i ricercatori a dedicare più attenzione agli aspetti di sesso e genere nella pianificazione e nell’analisi degli studi clinici.

Stereotipi e pregiudizi

Il terzo tema è quello dei pregiudizi, spesso inconsapevoli, di cui molti medici ancora soffrono. Se è vero che le donne hanno una maggiore incidenza di disturbi ansiosi, attribuire all’ansia ogni sintomo di non facile diagnosi porta con sé il rischio di sottovalutare problemi che possono essere importanti.

Una volta etichettata come ansiosa, una donna farà infatti molta più fatica ad ottenere un’attenzione adeguata anche in occasione delle successive visite mediche. Un discorso simile si può fare per quanto riguarda la soglia del dolore che il senso comune vorrebbe più bassa nelle donne.

In realtà la percezione del dolore varia nelle donne con il ciclo mestruale e con la concentrazione ematica di estrogeni, ma una sottovalutazione del dolore “a prescindere” è una delle principali ragioni del ritardo diagnostico di condizioni tipicamente femminili quali l’endometriosi e la vulvodinia.

La medicina di genere riporta l’attenzione tanto sulle differenze biologiche quanto sul ruolo sociale e le caratteristiche culturali di ogni individuo ed è una porta d’ingresso per la medicina di precisione e la medicina dell’equità.

Riconoscere le differenze tra le persone applicando un approccio sesso e genere specifico rappresenta infatti un grosso vantaggio per tutti, perché consente di proporre interventi mirati che tengono conto in maniera differenziata dei bisogni di salute. Superata una iniziale e scorretta interpretazione della medicina di genere come “medicina delle donne”, oggi è assodato che questo approccio può garantire trasversalmente migliori risultati per la salute di uomini, donne e persone di genere non binario.

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