L'inno del giorno dopo potrebbe essere cantato da Checco Zalone. Perché quando ancora la partita dell'Olimpico contro la Turchia non era terminata, già l'orecchio della mente udiva intonato il motivo di “Siamo una squadra fortissimi”. E il tono dei telecronisti, così come quello dei commentatori post-partita, andava in quella direzione. Viva la dismisura, almeno finché dura. E facciamola durare. Col suo delirio crescente di aggettivazioni impegnative, iperboli, esaltazioni, frasi come “li abbiamo sfiancati col palleggio”. E avanti così fino a oltre il coprifuoco della mezzanotte, che negli studi televisivi non vale. Ciò che rende davvero magiche queste notti, mica un gol di Ciro Immobile.

Chiusi nella loro metà campo

Del resto, la prestazione degli azzurri guidati da Roberto Mancini contro la Turchia autorizza l'esaltazione. Non inganni il 3-0 finale, perché la partita non era per niente facile. La nazionale avversaria era e rimane quotata, composta da calciatori di caratura internazionale, dotata di una fortissima difesa. Un elemento, quest’ultimo, che da punto di forza si è però trasformato in punto di debolezza. Perché va bene fare affidamento sulla tenuta della propria retroguardia. Ma altro discorso è giocare soltanto su quello, convinti che lo 0-0 sia un valore sicuro e che gli avversari prima o poi molleranno.

Sicché è successo che quella forza si sia convertita in debolezza. Inevitabile se incroci una squadra “che ti sfianca col palleggio (semicit.)”. Rischi di ritrovarti in una di quelle situazioni fotografate dalla fase emblematica: “Li abbiamo chiusi nella nostra metà campo e non riescono più a venire fuori”. Una difesa talmente forte, quella turca, da finire col farsi gol da sé. E risulta emblematico che a firmarlo sia stato lo juventino Merih Demiral. Che dall'altra parte del campo vedeva gli “anziani” compagni di squadra in bianconero, Bonucci e Chiellini, muoversi come se avessero tolto loro di dosso 10 anni di età. Demiral, che alla vigilia della gara si diceva sicuro di vincere, deve essere stato assalito dall’ansia pensando alla prospettiva di scalzare quei due nelle gerarchie della difesa juventina. Se la partita di venerdì sera doveva anche segnare il simbolico passaggio di consegne, l’autogol segnala che è meglio aspettare. E comunque il povero Demiral non sapeva che fosse tutta una questione di motivazioni. E motivatori.

Il motivatore occulto

Diciamo la verità: ci saremmo aspettati una nazionale turca più agguerrita. Politicamente, intendiamo. Soltanto due mesi fa, in conferenza stampa, il nostro premier aveva definito “dittatore” il loro presidente-sultano Recep Tayyip Erdogan. E quale occasione migliore che quella dell'Olimpico, per lavare l'onta nei confronti di un paese che come disse Churchill “perde le partite di calcio come se fossero guerre e perde le guerre come se fossero partite di calcio”?

In realtà quel fuoco nazionalista da parte dei turchi non si è visto. Sarà che molti di loro giocano all'estero, sarà che evidentemente il sutano in patria è meno amato di quanto si creda (a cominciare da egli medesimo). Fatto sta che (a parte il casino dei tifosi turchi sugli spalti, per lunghi tratti più chiassosi degli italiani) in campo, da parte dei calciatori in maglia rossa, non si è percepita una motivazione speciale.

Forse è mancato loro il motivatore. Ciò che invece gli azzurri avevano, come ha spiegato Ciro Immobile svelando l'arcano sulla frase pronunciata in faccia alla telecamera dopo il gol: “Prima della gara ci ha chiamato Lino Banfi e ci ha chiesto di dire 'porca putténa' dopo ogni gol”. E chi ci ferma più? Abbiamo già vinto, fermate pure la competizione. Con somma gioia del motivatore, che raggiunto dai giornalisti nel post gara ha affermato: “Per me quel 'porca puttena' gridato da così davanti alle telecamere è come un David di Donatello”. Ok, ma per favore si fermi qui. Fosse mai che volesse puntare all'Orso d'Oro.

Notti vintage  

Vada come vada, lo scopriremo nel prosieguo. Il mese è lungo, le partite sono tante. E gli show televisivi anche di più. Qualcuno fra questi mostra un fascino sui generis. Su tutti, l'appena inaugurato “Notti europee” su Rai1. D'acchito sembra Techetechetè e invece è uno show in diretta. Seguirlo è un'esperienza antropologica di cui si rischia non poter fare più a meno. Fra luci, colori di studio, ospiti, si fa un bel tuffo nel vintage. Come se il tempo si fosse fermato ai primi anni Novanta. Lo guardi e ti senti come la mamma appena svegliata dal coma in “Goodbye Lenin”. E ti senti assalire da un'irresistibile voglia di cetrioli dello Spreewald.

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