I luoghi più fertili quelli in cui almeno due ecosistemi si contaminano. Negli spazi di confine nasce la biodiversità più straordinaria. L’Alto Adige è un modello riuscito che supera la logica della separazione: un’identità può essere plurale senza perdere coerenza. Il rapporto tra sport e appartenenza territoriale va ripensato, così come il concetto di identità nazionale. Per non vedere nei confini un muro invalicabile
Nel linguaggio comune, la parola “riluttanza” assume tendenzialmente una connotazione negativa: indica esitazione e il dubbio si sa, insieme alle incertezze, non sono contemplate dal sistema binario su cui poggia il patriarcato di cui la nostra società è intrisa. È questo l’implicito presupposto da cui sembra scaturire la definizione di “italiano riluttante” che Corrado Augias ha usato nei confronti di Jannik Sinner. Ma la domanda è: riluttante rispetto a cosa? In questo momento in cui lo sport rappresenta sempre più un laboratorio sociale (e ci troviamo in prossimità di un importante referendum sulla cittadinanza) provare a rispondere aiuta a riflettere su come i confini identitari, culturali, geografici possano essere interpretati non solo come barriere, ma anche come punti di passaggio e trasformazione.
Era il 1961 quando Jurij Gagarin, primo essere umano a viaggiare nello spazio e a osservare il nostro Pianeta dall’alto. disse: «Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né confini». Da quaggiù invece, 64 anni dopo, si osserva una Terra in cui i confini ci sono ancora, si spostano e per essi si continua a morire; una Terra abitata più dal desiderio di esaltare ciò che separa piuttosto che valorizzare ciò che unisce.
Probabilmente se nella vita di ognuno ci fosse più sport, tra i principali benefici avremmo anche una maggiore dimestichezza col concetto di limite (che ogni atleta impara a conoscere molto presto) e a familiarizzare con il suo doppio significato di confine e soglia; ambivalenza confermata anche dalle due radici etimologiche: limes, limitis, il confine fortificato, la linea che separa e protegge e limen, liminis, la soglia che apre a un oltre, a un passaggio, a una possibilità. Nello sport il limite non è un confine invalicabile ma una soglia che spinge ad agire per crescere. Estenderlo alla vita, e in questo caso al concetto di cittadinanza, contribuisce a mettere in discussione l’idea di appartenenza come qualcosa di rigido e monolitico, rompendo con la visione di un popolo unico e con la necessità di rivendicare un’identità che, forse, esiste senza bisogno di essere dichiarata.
Il confine che diventa soglia è alla base del fenomeno della supercompensazione, centrale nella metodologia dell’allenamento, disciplina che studia mezzi e metodi atti a sviluppare il talento sportivo e portarlo alla sua massima capacità prestativa. Si basa sul principio che l’organismo vive in omeostasi ma per migliorare deve essere messo in difficoltà. Se l’allenamento riesce a lavorare sul confine tra equilibrio e squilibrio, mettendo in crisi il sistema, si sviluppa un adattamento (compensazione) che riporta l’organismo in omeostasi ma a un livello significativamente superiore (super).
Vale tanto sul piano fisico che psichico dove l’omeostasi è la zona confort, il disequilibrio è la crisi, la compensazione è l’adattamento e la supercompensazione la resilienza, il negativo che diventa positivo e riporta l’equilibrio a un livello superiore. È uno dei meccanismi che ci permette di migliorare e ha consentito la nostra evoluzione.
Lo sport insegna dunque che il limite non è mai una barriera definitiva ma il perno attorno a cui gravita il processo di crescita, fisica, psichica, individuale o collettiva. Anche in natura, i luoghi più fertili non sono quelli chiusi e impenetrabili ma le zone di transizione, quelle in cui almeno due ecosistemi si sfiorano, si influenzano e si contaminano.
In questi spazi di confine nasce la biodiversità più straordinaria. Vale anche per le culture e persino le identità nazionali: è nei punti di intersezione tra lingue e tradizioni, che si sviluppano società ricche e innovative. Una volta succedeva solo ai margini, ora può accadere anche nelle città cosmopolite.
Il modello Alto Adige
L’Alto Adige, terra natale di Sinner, è un modello riuscito che supera la logica della separazione: dimostra che l’identità può essere plurale senza perdere coerenza, permettendo alle persone di convivere, riconoscersi e sentirsi parte della stessa comunità pur nelle reciproche differenze. Chi nasce in questa realtà, non è meno italiano: è semplicemente il testimone di un modo diverso di esserlo, che non sente il bisogno di proclamarsi ma che esiste nella naturalezza della sua complessità e che ogni individuo interpreta in maniera originale.
In Sudtirolo lo sport è un motore di inclusione e crescita collettiva: l’investimento in strutture sportive non è un mero atto amministrativo ma parte di una cultura che valorizza la partecipazione prima ancora del talento. Il numero di medaglie olimpiche, in proporzione alla popolazione, è sorprendente. Molti sono i suoi campioni che rappresentano la varietà della convivenza multietnica. Gli altoatesini sono infatti italiani di madrelingua tedesca, come Jannik Sinner e Klaus Dibiasi (il più grande tuffatore italiano di tutti i tempi, unico a vincere tre ori dalla piattaforma in tre edizioni olimpiche); sono italiani di madrelingua italiana, come Simone Giannelli o italiani di madrelingua ladina, come Isolde Kostner e Maria Canins.
Ci sono anche altoatesini di nome italiano ma di madrelingua tedesca come la campionessa di tuffi, Tania Cagnotto. Una complessità che ha radici profonde. Dopo la Prima guerra mondiale, il Trentino-Alto Adige fu annesso al Regno d’Italia, e la popolazione germanofona visse la dura esperienza dell’italianizzazione forzata. Durante il fascismo, il tedesco fu bandito, i toponimi stravolti e persino i nomi personali adattati: Gerda Weissensteiner, campionessa olimpica di slittino, sarebbe diventata Gerardina Sassobianco, Jannik Sinner sarebbe diventato un improbabile Gianni Sinnero.
Solo nel dopoguerra, con l’accordo De Gasperi-Gruber, si pose la base per un nuovo modello di convivenza interetnica, consolidato dallo Statuto di autonomia speciale. Oggi, questa esperienza è considerata un esempio virtuoso di tutela delle minoranze linguistiche, sancita anche dall’articolo 6 della Costituzione.
Il fisco
Dell’aspetto fiscale sull’italianità riluttante di Sinner, si è già detto molto; forse manca solo un riferimento all’analogia col modello altoatesino che trattiene per il proprio territorio i 7/10 delle tasse riscosse. Questo sistema consente alla Provincia di gestire direttamente la maggior parte delle risorse, finanziando servizi e infrastrutture locali. Anche Sinner lascia le sue tasse sui territori dove vince, per regolamento della federazione internazionale.
Ormai però Jannik è diventato un marchio globale, una sorta di multinazionale che genera valore e opera su scala globale; la scelta della residenza monegasca è stata una conseguenza di un sistema tennistico che ne ha fatto il centro logistico per i suoi atleti top anche se ciò confligge con la sensibilità (fiscale) di parte del pubblico. E del secondo invito del presidente della Repubblica (rifiutato perché in concomitanza con la vittoria in Australia e l’attesa del verdetto WADA) che dire se non che la prima volta lo ha abbracciato, cosa che nessuno prima aveva mai osato fare.
Comunque la si voglia vedere, Sinner non è un italiano “per caso” bensì un italiano “per legge”. E questa vicenda che fa eco alla rinuncia di indossare la maglia azzurra, che scatenò polemiche qualche settimana fa, dimostra quanto sia necessario ripensare il rapporto tra sport e appartenenza territoriale così come a un concetto di identità nazionale che non veda nei (vari) confini un muro invalicabile bensì una soglia aperta a nuove possibilità di inclusione e crescita.
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