La recente assemblea sinodale doveva approvare il documento sul futuro della chiesa italiana, ma il testo di sintesi delle Proposizioni è stato bocciato. La partecipazione della comunità Lgbt non può più essere ignorata. La sfida del pellegrinaggio giubilare di settembre
Sul tema Lgbt la chiesa italiana è sempre di più a un bivio. Questo è stato chiaramente visibile nella recente assemblea sinodale, dove i delegati in rappresentanza delle oltre duecento diocesi italiane hanno bocciato il testo di sintesi delle Proposizioni, una sorta di elenco sintetico con le sfide della chiesa italiana del futuro, evidentemente poco adatto a mostrare la complessità che le diocesi della penisola vivono su questo e altri temi.
Il testo dovrà essere rielaborato entro il prossimo ottobre. Le premesse, d’altronde, non sono state incoraggianti. «Non siamo qui per piantare delle bandierine sulle singole affermazioni, cercando a tutti i costi di inserire la parola o la frase che ci identifica come singoli o come gruppi», aveva esordito nell’intervento di apertura Erio Castellucci, arcivescovo di Modena e presidente del Comitato nazionale del Cammino sinodale.
L’inclusione delle persone Lgbt, ostracizzate da sempre nella chiesa italiana, è stata toccata nei successivi interventi a porte chiuse. «Ho voluto sottolineare un problema di dicitura del testo: le persone Lgbt non soffrono perché si sentono ai margini, come suggerisce la Proposizione 5, ma soffrono perché sono poste ai margini», spiega un delegato diocesano di 30 anni, che chiede di restare anonimo.
La base della chiesa è cambiata, la sensibilità dei laici pure, e la questione Lgbt mostra nel vivo il ritardo della chiesa italiana nel recepire un cambiamento che, lontano da un fare amministrativo, è già prassi nelle diocesi.
Se si legge lo Strumento di lavoro, cioè il testo che ha accompagnato le chiese locali nell’ultimo tratto del Cammino sinodale, era considerata prioritaria «una pastorale con le persone che si sentono non riconosciute e ai margini della vita comunitaria a causa dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere». Evidentemente, nell’ultimo miglio, la questione è stata cancellata con un burocratico colpo di penna.
I vescovi del cambiamento
Il teologo Andrea Grillo insegna presso l’ateneo S. Anselmo di Roma ed è in prima linea per combattere lo stigma verso la comunità arcobaleno e le donne da parte di una chiesa retriva, a suo avviso sorda al Concilio Vaticano II. «È evidente che in questo caso sia scattato uno di quei meccanismi verticistici in cui la base deve accettare qualcosa redatta da pochi. Solo che questa volta in quelle Proposizioni nessuno si riconosceva, il testo non è proponibile per una chiesa sinodale, inclusi tanti vescovi. Non si può tenere la logica di mezzo secolo fa, occorre fare dei passi in avanti riconoscimento della realtà Lgbt e femminile», spiega.
Sono molti i vescovi italiani che chiedono di adottare un linguaggio nuovo, come mostrano le sempre più frequenti veglie di preghiera contro l’omolesbobitransfobia promosse in occasione della giornata internazionale del 17 maggio.
In testa c’è monsignor Francesco Savino, vicepresidente della Conferenza episcopale italiana, che il prossimo 6 settembre celebrerà la messa di quello che tecnicamente non può essere definito il Giubileo dei cattolici Lgbt, ma nella sostanza vi si avvicina.
Per due giorni, il pellegrinaggio giubilare “Chiesa casa per tutti”, prima accordato dalla Santa sede, poi rimosso e infine approvato, porterà a Roma centinaia di persone credenti della comunità arcobaleno a varcare la Porta santa nel Giubileo della speranza indetto da papa Francesco.
Certo, gli operatori che nella chiesa si occupano di pastorale Lgbt optano ancora per la «prudenza dei serpenti», ma è la prima volta che le persone credenti varcheranno la Porta santa rivendicando la loro identità queer. Ed è la prima volta che questo accade con la collaborazione dei gesuiti di Roma.
La chiesa è cambiata
Un quarto di secolo fa, nel Giubileo del Duemila, tirava tutt’altra aria. Gianni Geraci era presidente del Coordinamento gruppi di omosessuali cristiani in Italia quando ha fatto la scelta di partecipare al World Pride, indetto a Roma quello stesso anno, fra gli anatemi di papa Giovanni Paolo II.
Venticinque anni dopo, sembra che tutto sia cambiato. «La segreteria del Giubileo ci ha subito fornito indicazioni dettagliate su come si strutturerà l’evento. Ci ha molto sorpreso l’inserimento del pellegrinaggio nel calendario ufficiale sul sito web», spiega.
C’è tanto fermento fra gli organizzatori: «Stiamo ricevendo adesioni da Spagna, Francia, Slovenia, Stati Uniti e Sudamerica», e tanta speranza fra i partecipanti. Fra le email ricevute, Geraci si commuove ricordando quella scritta da un ragazzo transgender dell’Uganda, il paese popolato dal 40 per cento di cattolici con una delle leggi più restrittive sull’omosessualità: «Leggere la storia di un attivista, licenziato dal suo lavoro in un seminario cattolico per il suo orientamento omosessuale, e desideroso di essere a Roma, ci spinge a sentirci solidali come comunità».
Che sia in un’assemblea a porte chiuse o con le porte aperte del Giubileo, quella Lgbt è una questione che interpella tutta la chiesa cattolica: in gioco, come sempre, c’è la vita di chi è stato troppo tempo relegato nelle catacombe.
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