È pupo o puparo? Tira i fili o è solo l’ingranaggio di una struttura di potere del sottosuolo, rivelata dalla sua rumorosità e da mosse maldestre? Chi è Calogero Antonio Montante detto Antonello, il misterioso siciliano degli archivi e dei ricatti, lo racconta lui stesso. È l’inverno del 2016, da quasi due anni è sotto indagine per mafia, su un’utenza intestata a un’ignara pensionata all’improviso si sente la sua voce. È convinto che la linea sia sicura, che i poliziotti non lo stiano intercettando. Confida a un amico: «Non conoscono il nostro sistema di architettura perfetto. Ricordatelo, è l’architettura di come si agisce dentro la politica, dentro certe istituzioni».

Sono le 17.26 del 14 febbraio 2016 e l’amico – Giuseppe Catanzaro, il “re della monnezza”, proprietario di una discarica che la regione trasforma da pubblica in privata con un colpo di penna – ascolta in silenzio. Ma di cosa sta parlando Antonello? Quale architettura, quale sistema? Montante capisce che gli è sfuggita una parola di troppo, lascia cadere il discorso, Catanzaro subito dopo lo informa che gli faranno avere «il numero di targa della macchina di Marino». Nicolò Marino, sostituto procuratore della repubblica a Caltanissetta nel pool delle stragi e poi assessore dimissionario della giunta Crocetta proprio per quella discarica scivolata nelle mani di Catanzaro.

Hanno già «sorvegliato» i suoi due figli violando la banca dati del Viminale, Montante e Catanzaro fanno anche girare la voce «di un video contenente immagini scandalose della vita privata del giudice per delegittimarlo». Adesso sono a caccia pure di una targa. In quel febbraio del 2016 Montante e Catanzaro rappresentano ancora la “faccia pulita” della Sicilia, celebrati dalla stampa e da una copiosa produzione letteraria come protagonisti di una “rivoluzione civile”, sono quelli che denunciano il racket, i condottieri di una “straordinaria lotta legalitaria”. Nell’ombra tramano. Targhe, video, utenze telefoniche fantasma. La faccia pulita della Sicilia.

Un’incredibile ascesa

Chi scaraventa Montante e la sua banda prima sul palcoscenico della politica regionale e poi su quello nazionale, dove Antonello si impossessa grazie alla Marcegaglia e a Squinzi della vicepresidenza di Confindustria con aggiunta – coincidenza beffarda ma non inspiegabile – proprio della delega alla legalità? Come arriva lassù il meccanico di una piccola officina di Serradifalco, come si prende la Sicilia e come sale sempre più in alto con quel suo passato che fa odore di mafia?

Lo chiamiamo “sistema Montante” per comodità ma è riduttivo, in realtà è un sistema che si innesta su altri sistemi criminali e paracriminali già esistenti, è la stratificazione di organismi infetti che ciclicamente si riproducono in Italia supportati da complicità negli apparati. Per capire meglio la scalata di Montante bisogna calarsi nello scenario siciliano dopo le stragi del ’92, lo stato che per la prima volta dà una forte risposta poliziesca-giudiziaria, colpisce Cosa nostra corleonese, non allenta la presa sino alla cattura di Bernardo Provenzano, il boss che traghetta la mafia dalla stagione delle bombe all’inabissamento. Se c’è un confine, una data precisa per fissare l’entrata in gioco di Calogero Montante e dei suoi amici Giuseppe Catanzaro e Ivan Lo Bello – la trimurti siciliana della legalità – è proprio l’11 aprile del 2006, il giorno dell’arresto del vecchio Provenzano dopo quarantatré anni di latitanza. È lì che Montante diventa Montante.

Da quel momento la Sicilia volta pagina, la mafia è sconfitta, sconfittissima. Anche perché ci sono loro, Montante & C., che si mostrano e vengono imposti come gli imprenditori senza macchia che vogliono rilanciare l’economia dell’isola fuori dall’oppressione dei clan, che stanno fedelmente al fianco di magistratura e forze dell’ordine. Una straordinaria macchina di propaganda si mette in moto, l’informazione si trasforma in comunicazione, la trimurti della legalità finisce su tutte le prime pagine. Scalano Sicindustria, poi Confindustria. Promettono subito: «Tutti i nostri associati che pagano il “pizzo” in Sicilia li butteremo fuori». Si scoprirà che, in quindici anni, non c’è stata una sola espulsione. Dalla legalità alla politica. Allungano le mani sulla regione. Prima appoggiano il governo di centrodestra di Raffaele Lombardo che poi andrà a processo per mafia, poi sostengono il governo di centrosinistra di Rosario Crocetta che sbraita ogni giorno contro la mafia. Cambiano alleanze, si succedono governatori e assessori ma il “partito di Confindustria” è sempre nella giunta sotto la sapiente regia politica del senatore Beppe Lumia, parlamentare per sei legislature, un’innata duttilità per gli accordi più ardimentosi.

Dalla Sicilia a Roma

E dopo la regione c’è Roma. Ivan Lo Bello è vicepresidente di Confindustria e poi di Unioncamere, Giorgio Squinzi si affida mani e piedi a Montante che in viale dell’Astronomia porta come capo della security il suo uomo di fiducia Diego De Simone, un poliziotto raccomandato da questori e prefetti. Iniziano le scorribande. Le informazioni sensibili degli uffici investigativi che transitano verso un pezzo di Confindustria, lo stato maggiore dell’Antimafia, giudiziaria e investigativa, e dei servizi segreti che si confonde con la polizia privata di Montante, nessuno che può mettere in dubbio ciò che dicono o ciò che fanno Montante e Lo Bello. Chi ci prova viene bersagliato da lettere anonime, perseguitato, qualcuno anche rovinato. Sono due star. Profondamente diversi – grossolano Montante e raffinato Lo Bello, il primo che si compra la laurea e il secondo che confessa di addormentarsi ogni notte con le poesie di Baudelaire, uno appariscente e violento come un moderno campiere e l’altro invisibile. Montante finirà nella rete delle indagini, Lo Bello sarà solo sfiorato.

C’è un nuovo ordine in Sicilia che sembra costruito in laboratorio, che spazza via anche culturalmente la mafia “cattiva” dei Corleonesi e ripristina un’autorità territoriale “presentabile”, con sembianze istituzionali, capace però di preservare antichi patti. Alle spalle dei due c’è tutto un mondo che ha puntato su di loro. Anche per cancellare quello che potremmo definire il “pluralismo dell’antimafia” e instaurare una sorta di “dittatura dell’antimafia”. Ce n’è una sola: quella di Montante e di Lo Bello. Sotto questa crosta intanto la congregazione fa affari, si alimenta di ricatti, fa mercato di favori, in nome della legalità scatena la più sfrenata illegalità. Non è la macchinazione di un singolo, il piano è geniale.

Non è successo nulla

Ci sono liste di amici che ricordano elenchi del passato. Le categorie che si ritrovano in una e nell’altra lista sono le stesse: magistrati, giornalisti, scrittori, prefetti, capi dei servizi segreti, questori, industriali, ministri, boss dell’Eni e presidenti di banche. E sono anche gli stessi i mezzi per preservare potere e seminare terrore: dossieraggio, minacce, sorveglianza illecita, intercettazioni abusive, disinformazione. E, nonostante questo inquietante contesto, l’affaire Montante, ancora oggi, dai più viene liquidato “come una storia siciliana” o “una cosa di cui non si capisce niente”. Aggiungerei: di cui non si vuole capire niente. Meglio il silenzio. C’è chi straparla di massomafie e di criminalità interplanetaria, ma non dice o scrive una riga sul siciliano di Serradifalco. Eppure qui ci sono nomi, cognomi e indirizzi di personaggi che per lungo tempo hanno infettato le istituzioni e che – anche dopo l’arresto e la condanna di Montante a 14 anni – fingono che non sia successo nulla. Lui è travolto da processi e inchieste ma molti dei suoi sono sempre al loro posto. Ancora silenzio. Qualche giorno fa, il 23 marzo, presidente di Confindustria Sicilia è stato eletto Alessandro Albanese, che nell’associazione era il vice di Catanzaro, quello delle discariche. La continuità.

Ma allora, Montante è un pupo o un puparo? Forse, semplicemente, un “pezzo difettoso” per qualcosa che ha bisogno di più discrete presenze, di ovattate atmosfere, passaggi morbidi. Un ingombro da “sacrificare” alla giustizia. Anche perché Antonello è ancora sottoposto a indagini di mafia. Ci sono tracce che lo collegano a “Mister Valtur”, l’imprenditore del settore alberghiero Carmelo Patti originario di Castelvetrano e scomparso qualche anno fa. A Patti, nel 2018, hanno confiscato beni per un miliardo e mezzo di euro riconducibili al boss Matteo Messina Denaro. Altri indizi portano Montante alla famiglia Patti e a Castelvetrano, il regno di Matteo.

Sarebbe interessante conoscere oggi cosa ne pensano quei capi dei servizi segreti, i direttori della Dia, i generali dell’arma (e anche l’ex ministro dell’Interno Angelino Alfano) che si sono coccolati per anni Montante mentre, a ogni operazione poliziesca sui favoreggiatori di Matteo Messina Denaro, tutti insieme annunciavano: «Abbiamo fatto terra bruciata intorno al boss». E poi, la solita solenne promessa: «Lo prenderemo».

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