«Quando ho visto le immagini di Stanislav Tomas mi sono chiesto: adesso in Europa parleranno di noi come hanno fatto in America con George Floyd? Avremo la stessa onda mediatica? Per noi Black Lives Matter è un monito: dobbiamo parlare per noi stessi, se ci uniamo possiamo farci sentire, combattere il razzismo di cui siamo vittime». Parla Noell Maggini, 26 anni, sinto italiano di Pistoia, stilista emergente con un proprio atelier e undici collezioni presentate a Pitti Uomo.

Stanislav Tomas era un cittadino ceco di origine rom, morto a giugno in Repubblica Ceca dopo un fermo di polizia. Dallo scorso 21 giugno, circola un video che mostra chiaramente come Tomas sia stato schiacciato a terra con un ginocchio al collo, morto per soffocamento proprio come Floyd. Da quel giorno, la rete degli attivisti rom e sinti si è mobilitata con presidi e manifestazioni davanti alle ambasciate ceche in tutta Europa, a Roma è successo lo scorso primo luglio. Ai presìdi, in Italia come altrove, c’è una nuova generazione di attivisti fieri della propria identità romaní (il popolo romaní comprende le persone di etnia rom, sinti e camminanti) e, allo stesso tempo, più integrati nella comunità nazionale di quanto siano i loro genitori.

La storia di Maggini è esemplare: nonni giostrai, i suoi genitori hanno smesso l’attività per dedicarsi ad altri tipi di lavoro, più stanziali, e hanno fatto studiare il figlio che ha deciso di diventare stilista, percorso professionale inizialmente contrastato dalla famiglia. Oggi Maggini è un professionista affermato, il suo stile richiama l’identità e la storia del suo popolo: «Ho iniziato a fare attivismo pensando che il mio percorso potesse essere di ispirazione per i più giovani e una chiave di lettura per chi ci guarda dall’esterno».

I nuovi attivisti sono sociologhe, stilisti, operatori del sociale, studenti, registe.

Nuova generazione

A metà luglio, a Milano, si è tenuta per il quarto anno consecutivo la Scuola politica per rom e sinti, finanziata dal Consiglio d’Europa, organizzata dall’associazione Upre Roma in collaborazione con movimento Kethane, fondato da Dijana Pavlovic, già candidata all’Europarlamento e al Parlamento italiano e che, di questo movimento, è il riferimento per i più giovani. «Lo so che sono dura, ma a chi sostiene Black Lives Matter dico che è facile mostrare la propria solidarietà agli afroamericani. E noi europei allora, rom e sinti, possiamo essere brutalizzati? L’obiettivo della scuola è stimolare la partecipazione a tutti i livelli: dal voto consapevole all’associazionismo, sino a proporsi ai partiti», dice. Ci sono lezioni sulla comunicazione, l’analisi politica, l’organizzazione delle comunità. Si parla di propaganda, social network, ma anche della storia e dell’identità del popolo romaní. «Sono ragazzi mediamente più istruiti della generazione precedente. Utilizzano e padroneggiano le tecnologie digitali in maniera eccezionale, sono più aperti al mondo esterno, sono dentro un processo globale, stanno sui social e vogliono dire la loro».

Nel farlo, affrontano il razzismo sistemico della società italiana: molti di loro in passato hanno nascosto la loro identità a scuola, o quando cercavano un lavoro. Adesso non vogliono farlo più.

Razzismo d’Italia

«Quando mi sono candidato alle elezioni comunali di Lucca quattro anni fa – racconta Fiorello Lebbiati, 39 anni, a cavallo tra le vecchia e la nuova generazione, operatore della Caritas – molti mi chiedevano come potessi farlo: pensavano non fossi italiano». L’immaginario italiano è legato ai concetti di campi nomadi e immigrazione irregolare, ma le stime più attendibili del Consiglio d’Europa quantificano in 150-180mila le persone rom e sinti presenti nel nostro paese, di queste il 60 per cento circa sono di antico insediamento, ovvero sono presenti in Italia dal 1400 circa, gli altri sono arrivati in anni recenti dalla Romania e, precedentemente, dalla ex Jugoslavia, prima con la crisi del regime di Tito e in seguito con le guerre: tra questi molti sono apolidi perché non hanno mai ottenuto lo status di rifugiato, ma oramai sono stanziali in Italia, qui hanno avuto i loro figli. Dei 150-180 mila rom e sinti presenti nel nostro paese, vivono in emergenza abitativa nei campi circa 20mila persone.

Ervin Bajrami, 29 anni, è impiegato al Comune di Bergamo dove si occupa di bandi per i servizi sociali, è attivista Lgbt+, consigliere dell’associazione Il Grande Colibrì, da undici anni vive con il suo compagno. La sua famiglia è arrivata in Italia nel 2001 dal Kosovo in guerra: «Eravamo benestanti, abbiamo dovuto ripartire da zero». Dopo vent’anni, Bajrami è ancora in attesa di ottenere i documenti italiani, «ma se mi rimandassero in Kosovo avrei difficoltà anche solo con la lingua». Bajrami, che viene da una famiglia fortemente patriarcale, ha lottato per affermare la sua identità gay, «inizialmente ero considerato la vergogna della famiglia, sono dovuto andare via di casa, solo più tardi mi hanno accettato».

Riconoscersi e affermarsi

Così come si è autodeterminato come gay, oggi si batte perché l’identità rom e sinti sia rispettata e riconosciuta nel nostro paese. Tra le principali rivendicazioni politiche in Italia c’è il riconoscimento come minoranza linguistica: sarebbe la tredicesima in Italia dopo albanesi, catalani, croati, francesi, francoprovenzali, friulani, germanici, greci, ladini, occitani, sardi, sloveni. Il popolo romaní, la cui lingua deriva dal sanscrito, ha una storia lunga 1500 anni, quando una diaspora li portò a spostarsi dall’India nord-occidentale verso l’Asia Minore e poi in Europa. Vittime del regime nazista, hanno continuato a essere perseguitati anche dopo la seconda guerra mondiale, solo nel 1971 hanno iniziato un processo di riappropriazione della propria identità scegliendo una bandiera – azzurra come il cielo nella parte superiore, verde come l’erba sotto, al centro una ruota rossa – con cui identificarsi: stiamo parlando di 12 milioni di persone in tutta Europa.

«Noi non siamo zingari, siamo un popolo con una storia che molti di noi ancora non conoscono. Essere consapevoli delle proprie radici è il primo passo» dice Maria Consuelo Abdel Hafiz Mohamed Ramadan, una ragazza romni di 28 anni cosentina, laureata in sociologia, master in criminologia, che nella sua abitazione ha anche una nipotina di 11 anni in affido. «C’è stato contrasto tra il mio essere romni e il mio voler essere indipendente, studiare, scegliere i miei fidanzati: mio padre voleva che mettessi su una famiglia, restassi a casa». Oggi Abdel lavora come attivista in Kethane occupandosi di ricerca sociale, insegna musica, in passato ha fatto lavori molto diversi per mantenersi. «Sono romni, ne sono fiera, ma sono anche molto altro» spiega. Un’altra attivista, Laura Halilovic, 31 anni, quest’anno alla sua prima scuola politica, ha sfidato gli stereotipi per intraprendere la carriera di regista, “Io rom romantica” è la sua prima opera.

Ciò che accomuna storie molto diverse è il desiderio di affermazione civile, un desiderio che fa fatica a farsi spazio nella politica italiana dove la comunità rom e sinti è vista nel campo progressista come un problema da risolvere, nella destra populista come un’opportunità per raccogliere voti con le promesse delle ruspe, degli sgomberi. L’Italia, in Europa, con la sua forte presenza di persone nei campi, è un unicum. «Ma il disagio abitativo - dice Dijana Pavlovic - lo possiamo risolvere solo se si decide che sulla disgrazia delle persone non si fanno campagne elettorali», una frase che va letta anche alla luce della decisione della sindaca di Roma Virginia Raggi di procedere, ai primi di luglio, con lo sgombero del campo della Monachina.

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