A proposito di trattativa stato-mafia, e lasciando in pace i giudici buoni o cattivi che assolvono o condannano imputati eccellenti, forse varrebbe la pena di riprendere in mano un libro.

Per allenare la memoria, per capire da dove veniamo e perché facciamo ancora i conti con un intreccio perverso e assistiamo a interminabili combattimenti fra chi vede complotti dappertutto e chi invece non li vede mai.

Il testo che consigliamo ha più di un secolo, è stato scritto nel 1900 ma ci trasporta, ci scaraventa, nell’Italia di oggi e in qualche modo ci offre la possibilità – al di là di quelle sentenze giudiziarie che si prestano per essere usate violentemente da una parte o dall'altra – di decifrare l’oscuro mondo dei patti sotterranei fra gli apparati e coloro i quali dovrebbero rappresentare sempre il nemico.

Il titolo del libro è “Nel regno della mafia”, l’autore è Napoleone Colajanni, un garibaldino siciliano originario di Castrogiovanni (il fascismo volle chiamarla Enna), poi “agitatore politico” e poi ancora deputato repubblicano che con le sue denunce ha scoperchiato le vergogne della Banca romana, il primo grande scandalo nazionale, un inizio di Tangentopoli dell’età Umbertina.

Perché abbiamo scelto “Nel regno della mafia” e non altri saggi o pamphlet di quell’epoca? Perché in questo 2021 la Sicilia ricorda i cento anni dalla morte di uno degli oppositori più decisi di Francesco Crispi e di Giovanni Giolitti, amico di Filippo Turati, medico in Sudamerica, una laurea in Statistica, sociologo, appassionato “cronista”, nemico tenace delle tesi lombrosiane sulla razza e sul “criminale per nascita”, meridionalista in guerra permanente contro le prime depravazioni dello stato unitario.

Convegni e iniziative culturali sono in programma fino al 2022, nelle settimane scorse c’è stata anche un’ultima ristampa del suo “Regno della mafia” per i tipi delle Arti grafiche palermitane con una prefazione dello storico Lino Buscemi, che va ad aggiungersi ad altre recenti edizioni di Feltrinelli e di Bur Rizzoli.

Le “transizioni” fra polizia e mafiosi

Fra le pagine del libro di Colajanni si respira l’“odore” dell’attualità che spinge a una forte tentazione: mantenere intatta la trama e sostituire i nomi citati dall’autore con quelli contemporanei a noi più familiari, uomini politici o magistrati, funzionari di alto rango e mafiosi.

La parola “trattativa” non compare mai nel suo testo ma la sostanza non cambia: Napoleone Colajanni riferisce di «transazioni» fra boss e autorità di polizia, segnala di «relazioni amichevoli fra un delegato di sicurezza pubblica con noti ladri», racconta di questori che occultano prove per proteggere assassini.

Nel libro è ripreso anche il famoso discorso alla Camera del 12 giugno 1875 del deputato Diego Tajani, che qualche anno prima era stato procuratore generale presso la Corte di appello di Palermo: «La mafia che esiste in Sicilia non è pericolosa, non è invincibile di per sé, ma perché è strumento di governo locale. Questa è la prima verità incontrastabile (…) L’altro insegnamento è questo: che le leggi non funzionano completamente per la mancanza di fiducia degli amministratori nell’amministrazione».

Quello di Tajani è un atto di accusa e l’ex procuratore generale sa perfettamente di cosa sta parlando perché, da procuratore generale, aveva incriminato il questore di Palermo Giuseppe Albanese in un'inchiesta su un “dialogo” che aveva avuto a partire dal 1871 con i capicosca di Monreale.

L’ordine pubblico a Palermo

Come si era mosso il questore Albanese per finire alla sbarra? Aveva avuto un occhio di riguardo per un gruppo di mafiosi che aveva il compito di far fuori un altro gruppo di mafiosi più “governativi” e meno esuberanti con l’obiettivo, in compagnia dello stesso questore, «di mantenere l’ordine pubblico a Palermo».

Una pace voluta da ambo le parti, una negoziazione preceduta – chiamiamola come più ci piace – da una trattativa o da una transizione. Il saggio di Napoleone Colajanni indubbiamente ci riconduce ai giorni nostri e dimostra quanto siano ipocrite le reazioni di stupore sull’eventualità che, in casi estremi e poi neanche tanto, lo stato possa scendere a patti con le mafie.

Quel questore, Albanese, qualche mese prima era stato anche accusato come mandante dell’omicidio di un «facinoroso», tale Santi Termini. Il procuratore Tajani ne ordinò l’arresto, il questore Albanese si buttò latitante e da ricercato fu perfino ricevuto dall’allora presidente del Consiglio Giovanni Lanza che per quell’incontro fu bersaglio di pesantissimi attacchi in parlamento.

Cose d’altri tempi, ma sino a un certo punto. Perché, anche allora, e precisamente il 26 ottobre 1881, il questore Albanese fu assolto da tutte le accuse. Fra le cronache riportate da Colajanni e il presente le analogie non mancano, di negoziazioni fra stato e mafia se ne discute da quando l’Italia è Italia. Un “dibattito” che è iniziato nel 1861 e non si è mai concluso fra guerre sante, inconfessabili appetiti, sospetti, dispute feroci.

Anche prima dell’Unità d’Italia c’era già qualcuno che si stava intrattenendo con il nemico. Appena Giuseppe Garibaldi era sbarcato a Marsala il prefetto Liborio Romano, rappresentante in Sicilia di Ferdinando II di Borbone, aveva provato a convincere il re che era necessario firmare decreti di amnistia per un po’ di mafiosi palermitani rinchiusi nelle segrete della Vicaria e di camorristi napoletani detenuti a Castel Capuano. Così non ci sarebbero più stati disordini in tutto il regno.

Le analogie fra passato e presente

Avvenimenti che ricordano qualcosa che è, ben presente, nella ricostruzione dei pubblici ministeri siciliani nel processo sulla trattativa stato mafia. Non si parlava forse di benefici carcerari per far cessare le stragi anche dopo le bombe del 1992? Non volendo intrufolarci più di tanto fra le carte della procura palermitana né commentare nemmeno di striscio le sentenze dei due presidenti di Corte, quello di Assise Alfredo Montalto e quello di Assise d’appello Angelo Pellino, ci limitiamo a rammentare ai più smemorati che già più di un secolo fa c’era chi s’interrogava su baratti e favori in nome del quieto vivere in Sicilia e nelle regione meridionali con presenza di associazioni criminali ben introdotte nei gangli delle istituzioni.

D’altronde un altro questore di Palermo, Ermanno Sangiorgi, che fu il successore di quell’Albanese assolto per il vero o presunto tradimento, mandò una sua relazione al ministro degli Interni del re che non necessita di faticose interpretazioni: «Sgraziatamente i caporioni della mafia stanno sotto la salvaguardia di senatori, deputati, e altri influenti personaggi che li proteggono e li difendono per essere poi, a lor volta, da essi protetti e difesi».

Sostenere che non sia cambiato nulla rispetto quasi un secolo e mezzo fa, oltre che fuorviante sarebbe insensato, però qualcosa di quel mondo del sottosuolo è rimasta. Soprattutto per i mafiosi, sempre attenti a cogliere le fragilità di uno stato che è in confusione di interessi, uno stato che fa la voce grossa ma poi alla fine è sempre arrendevole.

Mandanti eccellenti e delitti impuniti

Tornando a Napoleone Colajanni e alla sua fotografia di mafia e politica del 1900, “Nel regno della mafia” parte dall’uccisione, avvenuta nel febbraio del 1893, del marchese Emanuele Notarbartolo, esponente della Destra storica, ex sindaco di Palermo ed ex direttore del Banco di Sicilia.

Il primo delitto eccellente della Sicilia. Il marchese aveva denunciato la gestione malandrina dentro l’istituto di credito, puntando il dito contro le protezioni di cui godevano i Florio che erano i più importanti imprenditori siciliani, e aveva fatto espressamente il nome dell’onorevole Raffaele Palizzolo per i suoi contatti con la mafia di Villabbate.

Dopo un processo che sembrava infinito fra Milano, Bologna e Firenze, segnato dall’alternanza di verdetti contrastanti (in mezzo anche un annullamento della Cassazione per vizio di forma), per il mandante del delitto caddero tutte le accuse. L’imputato era proprio il deputato Palizzolo, accolto come un eroe e un benefattore al porto di Palermo da una straripante folla dopo la sua definitiva assoluzione. Cose d’altri tempi anche queste, ma poi non così tanto.

Nel suo saggio Colajanni denuncia gli impasti e le corruzioni fra la Sicilia e Roma, i depistaggi nei processi, l’«anarchia di governo», le faide fra giudici, i voti di scambio, i «ministri conniventi con delinquenti». È un libro che conserva una sua freschezza nonostante il tempo passato.

Le ultime righe sono fulminanti: «Per combattere e distruggere il regno della mafia è necessario, è indispensabile che il governo italiano cessi di essere il re della mafia».

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