In questi giorni, dopo le dimissioni di Nicola Zingaretti dal ruolo di segretario del Pd, Domani ha ospitato l’appello – lanciato sulle colonne del nostro giornale da Nadia Urbinati, Stefano Bonaga e Piero Ignazi – contro lo sfaldamento di un partito la cui dirigenza sembra ormai dirigere solo se stessa. Abbiamo chiesto ai nostri lettori cosa ne pensano. Pubblichiamo una lettera arrivata da Aldo Ciani.

Ci risiamo: un partito senza guida, un avvenire incerto, ma soprattutto un popolo ferito, privato dell’unica ragione per la quale esistere: la rappresentanza.

E già, chi è che rappresenta noi che teniamo al bene comune, che abbiamo a cuore l’ecologia, la solidarietà, che vorremmo far crescere i nostri figli in città più sicure, i nostri anziani in città meno ostili, i nostri amici disabili in città meno complicata? Noi, che viviamo in periferia e veniamo dipinti come bestie esotiche; noi, che se siamo fortunati, incontriamo un Buzzi che ci mette a lavorare in una cooperativa e, se ci va male, un Carminati che ci mette in mano una pistola, che non vogliamo essere lo sfondo delle manifestazioni di Forza nuova, ma nemmeno le vedove di un mondo che non c’è più e mai più ci sarà, se abbiamo un problema a chi dobbiamo rivolgerci? 

Certo, l’uomo forte ha il suo fascino, la ruspa oppure gli opposti che si giustificano; il competente e quello che ha frequentato l’università della strada. 

Poi c’è una via stretta e faticosa, che è stare in mezzo agli altri, ascoltarli, condividere percorsi, immaginare soluzioni. Certo, studiare, vedere cos’ha funzionato altrove, aggiustare quello che non è da buttare, non avere paura di percorrere strade inedite, mediando tra interessi spesso contrapposti (a volte solo per pigrizia e ideologia). Diritto alla casa, ambiente, impiego pubblico e produttività, grandi catene e commercio al dettaglio, assistenza di prossimità e imprenditoria dell’assistenza. 

La politica deve tornare a comporre gli interessi, non agitare le curve. Deve mediare proponendo un orizzonte, sulla base di una forte idealità, ma sapendo che non si governa sulle macerie degli interessi altrui, anche di quelli più lontani e meno empatici.

E poi, saper leggere quello che arriva e non corrergli dietro affannati e senza risorse. Sapere che quando usciremo dalla pandemia saremo tutti più fragili, più impauriti, più poveri. Che lo saremo individualmente, ma lo saremo anche come comunità. Che saremo tentati, già lo siamo, di prendercela con gli altri, il vicino e il lontano, il potente e il miserabile.

Il conflitto non si esorcizza mettendo la testa sotto la sabbia, non si risolve cavalcandolo o cercando di addomesticarlo. Il conflitto si previene con misure di giustizia sociale, si affronta senza pregiudizi, separando il grano dal miglio. Il conflitto si risolve indicando un orizzonte concreto e realistico, chiedendo partecipazione e pretendendo il rifiuto della violenza.

Qualcuno in mezzo alla gente in questi anni c’è rimasto, è rimasto nelle piazze dei quartieri, nelle scuole e nelle università, nelle librerie e nei bar. Qualcuno in questi anni nelle ztl e oltre i raccordi e le tangenziali, nei mercati e nei ristoranti, in mezzo alle buche e alla mondezza, qualcosa ha costruito. Qualcuno ha scritto, molti hanno letto, hanno studiato, proposto. 

Non serve un marziano, l’uomo forte ha già dato, il competente e l’uomo qualunque continueranno a farci compagnia (che tanto loro lo sapevano e ce l’avevano già detto).

Occorre un popolo che si riconosca in un’ambizione antica, democratica, solidale, e una politica che sappia rappresentarlo. 

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