Tra l’Emilia e il west. Il rap come riscatto di Alvin e i suoi fratelli

Sulla scena buia si sente solo una voce nera: «Il coraggio non è solo un atto individuale ma un movimento collettivo», dice. «Sono Alvin Osei, un educatore di Reggio Emilia. E questo è Cult, il progetto che racconta il coraggio di una nuova comunità». Nel 2021 in rete appare un video di Gani, al tempo 20 anni, rapper con un passato al carcere minorile. Alcuni ragazzi infilano pistole (finte) nei pantaloni, si ammassano per strada, fanno freestyle sul tettuccio di un auto, insultano le forze dell’ordine. Questo accade a Villaggio Stranieri, periferia di Reggio Emilia, la città dell’educazione. «Quel video girato in pieno covid è diventato un caso», racconta Alvin, 31 anni, di origini ghanesi. «Ha aperto un dibattito sulla sicurezza in una città come Reggio Emilia, la città delle persone». Così il Comune avvia progetti con il rap. La cooperativa Giro del cielo, dove lavora Alvin, decide di organizzare un evento. Tra gli invitati c’è anche Gani. Da quella serata nasce Cult, un collettivo che usa il rap per dare voce a chi vive ai margini e costruire comunità. «Si pensa che i ragazzi non abbiano contenuti», dice Alvin. «Questa esperienza racconta che non è così. I partecipanti si sono sfidati con brani su razzismo, discriminazione, violenza». Alla gara si presentano 35 artisti italiani e di seconda generazione, dai 17 ai 30 anni, appartenenti a ceti sociali molto diversi. «L’evento è un successo e ha riacceso la scena rap reggiana, ferma dai tempi di Quattro mura, il gruppo fondato da me, Sarvish e Abdel». È il 2010. Tre adolescenti con storie ingombranti sulle spalle si incontrano. Si fiutano addosso gli stessi conflitti, la stessa povertà, quell’odore pungente che ha la voglia di riscatto. Si trovano nel linguaggio comune del rap, scavano e cercano le parole per raccontarsi. Formano il gruppo Quattro mura. “Io, Sarvish e Abdel siamo fratelli”. “Bottega Finzioni”, il riscatto dei ragazzi attraverso la scrittura Le parole del riscatto Alvin nasce nel 1994 a Reggio Emilia da genitori ghanesi. «Non ero un figlio voluto». A sei anni viene portato con un biglietto di sola andata in Ghana dove però Alvin non è più Alvin. «Mi chiamavano Nanà Yaw perché lì una persona prende il nome del giorno in cui è nata». Torna a 11 anni, quasi senza ricordare l’italiano. Inizia così a frequentare il doposcuola. «Il doposcuola dove oggi lavoro come educatore. In adolescenza sono stato depresso e perso e solo». Il rap gli offre uno spazio sicuro in cui sperimentarsi. Con Sarvish e Abdel inizia a scrivere e comporre qualcosa di più della sua storia: «Siamo cresciuti insieme nel bene e nel male». La cultura hip hop diventa il loro legame, dà forma al loro stare al mondo. «Ora siamo degli uomini. Con Cult proviamo a dare ai ragazzi come noi il loro momento di riscatto». Sarvish Waheed nasce nell’89 in provincia di Reggio Emilia da genitori pakistani. «Il mio nome all’anagrafe doveva essere Sarosh ma si sono sbagliati e hanno scritto Sarvish. Questo mi ha creato una crisi di identità: il mio nome non esiste, è scaturito da un errore». A Carnevale la madre di Sarvish non ha i soldi per compragli un vestito: «Prese un cappello in cantina e me lo mise in testa: ora sei un cowboy, non so che altro fare». Da adolescente incontra la musica rap. Fa concerti con Alvin e Abdel. La scena rap di Reggio Emilia si forma intorno all’esperienza musicale dei Quattro mura. Sfiducia nel futuro e meno opportunità, il grido dei giovani nelle periferie: due ragazze su tre temono molestie «Facevamo denuncia sociale. Abbiamo trovato tanti punti in comune, primo fra tutti, un rapporto conflittuale con i padri». Il padre di Sarvish abbandona la sua famiglia, nel 2007 i loro rapporti si interrompono: nel 2015 Sarvish torna in Pakistan per la sua morte, senza averlo perdonato. Oggi lavora ed è diventato papà. «Con Cult io, Alvin e Abdel vogliamo far esprimere attraverso il rap i ragazzi che vengono dai margini». Abdel El Yaacoubi nasce a Casablanca e arriva in Italia a 8 anni. Le maestre gli parlano a gesti, a una festa scappa davanti a una tavola piena di affettati: «Ero finito nella terra del maiale». Inizia a scrivere rap con Sarvish e Alvin. «Ognuno faceva la sua strofa. I testi riguardavano la nostra vita». Una volta gli dicono che spende troppo per le scarpe e lui risponde: «La mia infanzia l’ho passata correndo scalzo mentre voi vestivate Chicco». Oggi Abdel lavora e continua con la musica. «Cult ci ha uniti come fratelli ancora di più». Nei contest di Cult i tre sono giudici: «Siamo stati pionieri. Ora che siamo uomini abbiamo le parole e il coraggio per raccontarci ma ci sono cose che dobbiamo ancora dirci». L’anno scorso Cult entra nel carcere di Reggio Emilia. Dopo un concerto, l’istituto chiede ad Alvin di guidare un laboratorio rap con i detenuti. «Sono maschio, nero, africano: molti si rivedono in me. Li ho fatti lavorare sul pensiero e sulla propria storia. Sono emerse vicende fortissime». Sul palco del TedX, Alvin racconta Cult: «Il rap è una ferita individuale che diventa musica collettiva». Dalla scena buia compaiono anche Sarvish e Abdel. Eccoli, i tre ragazzi cresciuti in fretta che fanno da fratelli maggiori a chi si sente perso e arrabbiato. Con le famiglie a pezzi e un pezzo rap che esce dalla bocca muovendo antiche ferite e un nuovo coraggio. Lettura e riscatto sociale: quando una biblioteca può essere casa