Vorrei dire grazie al giudice Angelo Pellino, presidente della Corte d’assise d’appello di Palermo. Grazie per avere dissolto quella nebulosa oscura che aveva preso il nome di “trattativa stato-mafia”, ed era poi diventata un’entità, distillata dai suoi sacerdoti. Il giudice Pellino ha assolto i rimanenti imputati di una messa in scena durata 12 anni (o meglio, quasi 30, come vedremo); la “trattativa” è stata un insulto pervicace (e sadico) alla memoria di Falcone e Borsellino operato dai suoi colleghi magistrati, una palestra per ambizioni politiche, per fortuna in genere fallimentari; e, soprattutto la creazione di una “narrazione” (brutto termine, lo so, ma efficace), che dice che lo stato e la mafia sono la stessa cosa, argomento che ha fatto il successo del partito di Beppe Grillo e del giornalista Marco Travaglio. Grazie, giudice Pellino, di aver messo uno stop a tutta questa schifezza.

Mafia fur dummies

Se c’è una cosa che contraddistingue i fatti di mafia, è che nessuno – intendo le persone normali – ne capisce niente, e soprattutto non ne vuole sapere; e nello stesso tempo, per il numero di morti che questo fenomeno ha provocato in Italia, decine di migliaia di persone, più o meno, ci hanno avuto direttamente a che fare. Per cui, in casi come questo, due approssimazioni si sommano creando un rumore di fondo piuttosto fastidioso. Cerco quindi di riassumere sull’argomento di cui sto parlando, una specie di “mafia for dummies”.  

Dunque, succede che tra gli anni Ottanta e Novanta l’Italia stava per diventare un “narcostato”. L’economia criminale, spinta dal monopolio del commercio di eroina, era di gran lunga più profittevole di quella legale (a cui peraltro la prima prestava molti soldi); l’assetto politico era stato distrutto dalla corruzione, quello finanziario, soprattutto quello cattolico, vedeva ogni giorno una possibile bancarotta. Dopo un decennio di tensioni economiche finanziarie, il patatrac avviene nel 1992 con le uccisioni spettacolari di Falcone e Borsellino (roba mai vista prima al mondo, se non nel Padrino III, film molto anticipatorio – che vi invito, depurato delle melensaggini, a riconsiderare). Seguono bombe “in continente” per tutto il 1993, un attacco diretto dei servizi segreti al presidente Scalfaro, che reagisce ordinando, in qualità di capo delle forze armate, manovre dell’esercito; poi la cosa si placa, l’Italia va pazza per un uomo nuovo che vince le elezioni e comincia la seconda repubblica in cui, per fortuna, almeno quello ci viene dato: la mafia non c’è più. Tutto il peso di spiegare che cosa sia successo (e sono successe cose terribili: cadaveri eccellenti e bambini sciolti nell’acido solforico) cade sulle spalle della magistratura, della polizia, dei carabinieri e dei servizi segreti. La politica, apparentemente, non sembra interessata. E i magistrati, ognuno dei quali ha giurato di portare avanti gli insegnamenti di Falcone e Borsellino (non piegare la schiena, trovare i riscontri, e follow the money), sono gli eroi del momento, tutti si fidano di loro. 

La trattativa

Primo atto: ci spiegano che tutto è opera delle “belve corleonesi”, che però sono state prese e rese inefficaci. Poi ci spiegano che, per esempio, l’omicidio Borsellino è stato organizzato da un ragazzo scimunito di quartiere; e che far saltare un’autostrada è tutto sommato facile, basta mettere i panetti di dinamite nel canale di scolo con uno skateboard e poi Giovanni Brusca (un altro tipo di non eccelsa intelligenza) dalla collinetta dà l’impulso. Si scopre però che uno degli artificieri, tale Nino Gioè, arrestato, è sì un mafioso, ma anche un uomo dei servizi. Lo trovano impiccato a Rebibbia, dicono suicidio. E come non crederci? Intanto, è passata una decina d’anni, i cadaveri eccellenti non esistono più, la Sicilia sembra la Svizzera.

Siamo nel 2010, più o meno. Viene presentato al pubblico un signor pentito, tale Gaspare Spatuzza, una feccia della terra che ha pure ucciso un prete. Spatuzza racconta un’altra storia: le bombe le ho messe io, me l’ha ordinato il mio capo, che si chiama Graviano, che è un socio in affari di Silvio Berlusconi. E snocciola un sacco di prove, fin troppe. E si scopre che erano dieci anni buoni che le andava dicendo…

Vabbè, dicono i magistrati: bisognerà vedere. E scoprono che c’è un’altra miniera, tale Massimuccio Ciancimino, figlio molto arrogante del famoso don Vito Ciancimino. Questi, che ha ricevuto in eredità dal padre centinaia di miliardi su cui la procura di Palermo ha messo gli occhi, rivela notizie esplosive alla procura stessa: «So tutto, i carabinieri vennero da mio padre, che li aiutò a far catturare Riina. Borsellino non era d’accordo con questa “trattativa” e per questo venne ucciso». Wow! La storia cambia. E Massimuccio aggiunge: chi teneva le fila era un certo signor Carlo… Ah, sì, forse mio padre aveva scritto il suo nome da qualche parte. Ah, forse lo ritrovo. Ed eccolo qua, il bigliettino: il signor Carlo è Gianni De Gennaro (allora capo della polizia, oltre ad essere il più famoso investigatore, l’amico di Falcone).

Per fortuna, una semplice perizia scopre che il nome Di Gennaro l’ha scritto Massimuccio coi trasferelli… altrimenti nel processo trattativa, oltre ai carabinieri infedeli avremmo avuto anche l’attuale presidente di Finmeccanica Leonardo, ovvero la nostra potente industria degli armamenti che ha un peso notevole sulla nostra politica internazionale. (Già, ma chi l’aveva consigliato, a Massimuccio?).

Mafia stato

Cade Massimuccio, che era l’asso nella manica – anzi, era diventato l’icona dell’antimafia delle trasmissioni televisive, ma la procura di Palermo va avanti come un sol uomo: c’è stato un grande complotto, lo stato si è piegato alla mafia. Sono coinvolti Giuliano Amato, Giovanni Conso (ex ministro di giustizia), Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno, il vecchio Calogero Mannino, bersaglio facile, che sospettato di mafia lo è da decenni, sono fortemente sospettati di aver tenuto bordone il presidente Ciampi e il presidente Scalfaro e… bomba! Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Vi ricorderete: il caso delle intercettazioni telefoniche tra Napolitano e Mancino che si scambiavano gli auguri di Capodanno? Roba forte, come l’agenda rossa del giudice Borsellino fatta sparire. Bene, il giudice Di Pietro e Beppe Grillo chiesero l’impeachment per Napolitano, Travaglio ci scrisse un libro e agitò le piazze, i Cinque stelle si formarono intorno a questa idea forte.

Naturalmente non c’era uno straccio di prova per niente – tutta l’indagine è frutto di una insipienza investigativa rara, ma l’agomento “tirava”. Era diventata un teorema: lo stato mafia, la mafia stato. Era anche un business: il pm Ingroia candidato al parlamento (disastro, per fortuna), Marco Travaglio, più epigoni, che sfornavano articoli, libri, spettacoli teatrali, musical, conferenze, dicevano la loro sulle nomine del Csm – tutti argomenti su cui mi immagino l’ex giudice Palamara non mancherà di lucrare. Il giudice Nino Di Matteo, il giovane magistrato che si era accalorato per difendere il depistaggio sul delitto Borsellino, poi aveva scoperto la trattativa, poi era stato condannato a morte dal vecchio Riina in carcere, minacce addirittura trasmesse in televisione, diventa un eroe nazionale, protetto con il bomb jammer, cittadino onorario di cinquanta municipi d’Italia (sempre su proposta dei 5 stelle), che ha un suo proprio organo di stampa, che si offre lui stesso – a Di Maio, a Salvini, a chiunque – per diventare ministro della Giustizia, o dell’Interno, o almeno direttore delle carceri; è un giudice moderno, parla di entità, di poteri occulti, ha avuto il coraggio di sfidare i santuari, sfida ogni giorno la morte e fa capire che se questa gli sarà data, non sarà la mafia ma lo stato mafia, la mafia stato, i “collusi”. È un potente simbolo di un periodo molto confuso in cui, ancora oggi siamo immersi.

Pensiero unico

Ci si augura che la sentenza di Palermo, che ha demolito 12 anni di questa mattana, sia foriera di tempi migliori. Ma la strada della trasparenza è difficile da imboccare, specie quando si è stati così male abituati. Per esempio, molti sono stati insospettiti dal fatto che sia stato assolto Marcello Dell’Utri (uhm? Un regalo a Berlusconi?). In realtà il problema era che le accuse a Dell’Utri erano effettivamente risibili.

Guardando indietro, però, il danno fatto mi sembra difficile da rimediare. Sono passati ormai quasi trent’anni dagli eventi che trasformarono l’Italia. A spiegarci che cosa era successo è stata chiamata la magistratura, che ha dato una pessima prova di sé. Più delle indagini serie tutti conoscono invece depistaggi, teoremi, approssimazioni, in un panorama costellato di Scarantino, Ciancimino, Di Maggio, Brusca, personaggi da un tanto al chilo; da magistrati chiaramente non all’altezza delle loro funzioni ma diventati detentori di grande potere. Zelanti nel mettere sotto controlli i telefoni, ma poco più. Molto spesso pigri, e poco curiosi. Assenza di curiosità che hanno trasmesso a schiere di giornalisti, che sono stati chiamati – e hanno accettato gioiosamente – a cantare le loro glorie, fino a costruire il famoso “pensiero unico” fatto di niente. Eppure ce l’avevano davanti e non l’hanno voluto vedere. Ci hanno messo trent’anni a capire che le bombe, tutte, le avevano messe i fratelli Graviano, cosa che era chiara fin dal 1994. O forse lo sapevano e li hanno coperti per trent’anni.

Ma, a questo punto: la cosa interessa ancora qualcuno?

Un’ultima cosa. Non conosco il giudice Angelo Pellino, palermitano nato nel 1959. Tutti ne parlano come di persona seria, schietta, riservata, aliena dalla ribalta. L’ho visto in tv mentre leggeva – quasi bisbigliando – la sentenza; piccolo, magro. Mi sono ricordato di quando, una decina di anni fa, fu chiamato a presiedere il giudizio sull’omicidio del giornalista Mauro Rostagno, su cui magistrati, carabinieri e giornalisti si erano esercitati in una ventennale opera di depistaggio. C’era un particolare nel delitto a cui nessuno aveva dato troppa importanza: il fucile del killer si era rotto e una parte del calcio era rimasta sul terreno. Mai analizzata, però, per fortuna conservata. Nello stupore generale, il presidente Pellino, al processo, chiese di fare su quel reperto l’esame del Dna, che rivelò il nome dell’assassino.

Che io sappia, in fatti di investigazioni antimafia, il giudice Pellino è l’unico che abbia portato un risultato concreto.

Non sarebbe un buon procuratore nazionale?

  

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