Musa Balde è deceduto nella notte tra sabato e domenica nel Centro di permanenza per rimpatri di stranieri di Torino. Di lui si sa che aveva 23 anni ed era originario della Guinea. È finito dentro dopo essere stato aggredito il 9 maggio scorso da tre italiani a colpi di spranga a Ventimiglia, mentre forse cercava di arrivare in Francia. Durante la visita in ospedale era emersa la sua irregolarità e per questo è stato spedito in quello che per i torinesi è il Cie di corso Brunelleschi. Si è subito parlato di suicidio, commesso arrotolando le lenzuola come un cappio, ma alcune voci, arrivate a volontari che sono in contatto con i migranti, parlano di mancata assistenza: «Secondo la testimonianza di un ragazzo, nonostante dimostrasse chiari segni di sofferenza causati dalle lesioni al corpo, Musa non è stato mai visitato da nessun medico o membro del personale medico del Cpr. È stato sentito urlare e chiedere l’intervento di un dottore senza mai ricevere una risposta», si legge nel comunicato diffuso da No Cpr Torino, un comitato composto da persone che vogliono rimanere anonime e che spesso organizza presidi di solidarietà all’esterno del centro.

Sul fatto, su cui per ora indaga la squadra mobile di Torino, c’è riserbo. Ma da tempo le condizioni del Cpr di Torino, uno dei nove presenti in Italia (capienza 161 posti, spesso sovraffollato) sono denunciate da avvocati e associazioni: «Mi sembra che la situazione del Cpr sia totalmente ingestita e ingestibile e la storia di Musa ne è la prova: è entrato lì senza un approfondimento psichiatrico, non si sa se il personale sapesse della sua aggressione, ma l’ultima cosa da fare sarebbe stato metterlo in isolamento», racconta Gianluca Vitale, l’avvocato che seguiva Musa, il quale non si dava pace per essere stato rinchiuso, vista l’aggressione razziale che aveva subito per il solo fatto di chiedere l’elemosina: «Quello è un luogo di abbandono, queste persone vengono buttate lì e non sanno neanche perché».

Le denunce

Da tempo politici ed esperti di diritti umani denunciano le condizioni pessime di chi lì dentro vive: «Questa morte mi ha ricordato quella di Faisal (deceduto nel 2019 per infarto mentre era in isolamento, ndr) rinchiuso per sei mesi, anche lui era detenuto nell’Ospedaletto, delle cellette a schiera separate dal resto, aree scarsamente controllabili», aggiunge Vitale. Queste mura sono spesso inviolabili anche per gli avvocati, ancor di più da dopo le riforme fatte quando Matteo Salvini era al governo. Dal 2018 al 2019 nel Cpr di Torino le ore di presenza di medici, psicologi e mediatori sono state dimezzate. Mentre quelle per l’assistenza legale sono passate da 72 a 16. Le comunicazioni dall’interno sono scarse anche perché di recente è stato vietato l’uso del telefonino personale. Ci sono dei telefoni pubblici, ma che spesso non funzionano. Una delle ultime grandi proteste è avvenuta questo inverno, quando sono state distrutte due aree, bruciate dagli stessi ospiti che cercano in ogni modo di far sentire la propria voce. La mala gestione riguarda ogni aspetto: ragazzi minorenni, detenuti perciò illegalmente, scarsa igiene e assistenza, cibo avariato, mancanza di cure mediche adeguate di fronte a patologie che meriterebbero attenzione, e di beni di prima necessità come coperte e lenzuola, ma anche violenze ed abusi.

«Molti sono stati prelevati dalle forze dell’ordine in assetto antisommossa e condotti, uno alla volta, in una stanza dove sono stati picchiati, immobilizzati da tre guardie ed infine costretti, sotto tortura, ad effettuare il tampone», scrivono dal comitato No Cpr Torino. I fatti si riferiscono al tampone anticovid, un atto necessario per concludere il rimpatrio e per questo diventato arma di dissenso, ma anche il rifiuto del cibo e delle terapie psicologiche spesso sono gli unici modi per provare a farsi ascoltare: «La pressione quotidiana delle guardie e le attuali condizioni di sovraffollamento all’interno delle stanze hanno portato alcuni reclusi a compiere gesti di autolesionismo in segno di protesta», si legge ancora.

Le proteste dei parenti

Anche sui social i pochi parenti denunciano: «Mio fratello è stato insultato e picchiato durante la custodia ed è stato deportato con la forza», «Il mio compagno è lì dentro da novembre e qualche giorno fa hanno dato fuoco a tutto, ora dormono per terra, in 35 in una stanza».

«Sono luoghi di sofferenza, peggio delle carceri perché qui non esistono sistemi di accoglienza, terzietà o associazioni che operano. Sono spazi fatiscenti per quelli che sono di fatto dei “senza nome”», spiega Marco Grimaldi, consigliere regionale di Liberi e uguali, che è riuscito negli anni a fare più di un sopralluogo, sempre con difficoltà: dalla richiesta alla possibilità di entrare infatti trascorrono giorni e non è semplice verificare le mancanze.

«I casi di abuso di psicofarmaci e autolesionismo, sono numerosi: ti chiedi perché sei lì e non lo sai. Chi scappa da miseria e guerra e finisce in un Cpr è spogliato di nuovo della sua libertà, anche perché nella maggior parte dei casi non si è detenuti per un crimine. È la cronaca di un disastro umanitario e civile», aggiunge Grimaldi che per la morte di Faisal denunciò il malfunzionamento del citofono per chiedere aiuto e la mancanza di telecamere nelle cellette.

Per molti a essere sbagliato è l’intero sistema dei Cpr, costoso e inefficiente, quando ci sarebbe tutto lo spazio nel sistema carcerario attuale. La gestione poco trasparente rende i centri di permanenza delle galere parallele in cui però le regole sono diverse. «Sono luoghi totalmente impermeabili all’esterno e con un’altissima presenza di forze dell’ordine, quasi ingiustificata», conclude Vitale. «Ma il grande schieramento, con mitra sempre visibili e antisommossa, indicare una cosa sola: quella è già frontiera. Ti trovi in Italia, ma sei già fuori. Per questo l’isolamento è coerente in un territorio separato addirittura da quello italiano».

 

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