Torino, cuore della pandemia del nord ovest insieme a Milano. Tangenziale nord. Auto e camion corrono ininterrottamente durante il giorno e rallentano solo dopo l’ora di cena. Il frastuono si sente da chilometri di distanza fin dalle prime ore del mattino.

La “zona rossa”, una sorta di castigo che monda e porta alla salvezza, è in realtà una rassicurante zona rosé, dove più o meno si può fare tutto.

Mercato di santa Rita, quartiere nato per dare alloggio ai mandarini della Fiat, il ceto impiegatizio che nel 1980 ha vinto la grande battaglia contro le periferie operaie. Esclusi i pochi reietti che non possono più vendere scarpe, vestiti e giocattoli, i banchi abbondano di acquirenti, curiosi, gente che guarda. Non uno stallo è rimasto vuoto, semplicemente chi non può occupare il posto viene sostituito da altri commercianti, mors tua vita mea, fuori i vestiti dentro l’intimo, fuori i profumi dentro un altro intimo o prodotti per la casa. L’agente della sicurezza, pagato dagli ambulanti, disperde gli assembramenti davanti ai banchi, ma è una battaglia impari.


«Questo Dpcm – contesta Salvo, ambulante che vendeva giocattoli e ora si arrangia –  fa differenza fra uno uno è l’altro: questa è la parte che fa innervosire. Perché alcuni sì e altri no? Il mercato è pieno lo stesso, cosa cambia tra un vestito e un paio di mutande? I giocattoli che io non posso vendere, nei centri commerciali vengono acquistati in questo momento: vi pare corretto?».

Non c’è paragone tra la serrata generale di marzo aprile, quando per le strade della città passeggiavano anatre e cinghiali, e questa roboante “zona rossa” fondata sul senso di colpa, più  nobilmente “senso di responsabilità”, dei cittadini che devono decidere personalmente se stare a casa o meno. Il sole alto, il clima mite e le folle per strada, riversano nella semi normalità quasi tutti, consapevoli che un esercito di tali dimensioni non può essere fermato da sparuti controlli. E poi c'è la mascherina che nelle parole di molti ha sinistramente preso la forma di uno scudo invincibile, dotati della quale tutto è possibile a tutti.
Così i bar aperti hanno sulla porta d’ingresso una barricata fatta di tavoli e sedie, nonché minacciosi cartelli «non fermatevi!», «consumazione vietata anche nelle vicinanze!», e altri sul tema. Ma, alla fine, la gentile barista di corso Francia,  ammette: «Impossibile mandare via la gente. Siamo tutti in giro, nei casi peggiori sono arrivati i vigili».

I dati dei trasporti

Il Gruppo trasporti Torino fornisce qualche dato che corrobora la percezione di zona rosé: durante il lockdown i passeggeri che si muovevano lungo la rete della metro erano intorno a 12.000-15.000, ovvero il 10 per cento della capienza. Dalla riapertura il numero di passaggi è costantemente aumentato raggiungendo punte di 85.000 giornalieri, circa il 60 per cento. Nelle due settimane precedenti la dichiarazione di zona rossa i passeggeri sono scesi a 65.000- 55.000: venerdì scorso, primo giorno di semi chiusura i passaggi sono stati 35.000. Quindi oggi nel cuore della zona rossa del nord ovest si muove circa il triplo di cittadini rispetto alla scorsa primavera, e la metà di qualche giorno fa. Il tutto in un contesto dove la mobilità privata, per altro incentivata dalla sospensione della zona blu in centro, è sostenuta, come testimonia il traffico semi normale lungo le arterie più importanti di Torino.

Numeri interessanti, a modo suo, li dà anche un giovane ragazzo che lavora presso un distributore di metano della cintura torinese, Giulio: «A marzo potevo guardare un intero film senza interruzioni. Ora è un'altra cosa. Più precisamente: a quel tempo in media facevi due rifornimenti all'ora, in estate inizio autunno siamo risaliti a dieci dodici, oggi siamo ridiscesi a sei».

Il triplo di marzo, la metà di settembre ottobre. Si potrebbe ipotizzare un andamento simile anche sulla curva dei contagi? In città, nel caso, si passerebbe da 2.500 a 1.200-1.300? Calcoli in ogni caso impossibili dato che gli asintomatici testati sono passati dal 73 per cento di inizio ottobre al 42 per cento della scorsa settimana: e chi non sa di essere malato, nella zona rossa rilassata, non ha difficoltà a muoversi.

Non ovunque così: se i quartieri popolari resistono in una parvenza di semi normalità, il centro delimitato dai portici ideati per far passeggiare i Savoia, è dominato dal silenzio. La violenta trasformazione torinese da città legata al ferro e alla produzione a città fondata su turismo, cibo e loisir,  appare evidente come mai prima. Bar chiusi, ristoranti chiusi, zero turisti e zero impiegati tutti a casa davanti al computer: il centro, di giorno come la sera, è uno dei pochi punti di Torino dove si percepisce il vuoto e l'angoscia della scorsa primavera.
Paolo Barsi, proprietario della libreria Comunardi, una delle ultime che resiste: «Non è come a marzo, ma comunque è evidente che il centro città è diventato un grande e unico ristorante: chiusi quelli, per strada non rimane nessuno».


In corsia

«Ignoro che effetto estetico-sociale abbia la zona rossa di Torino. Io vivo in ospedale, qui da due, tre settimane è sempre tutto uguale: un inferno»: così, C.G., medico che lavora in prima fila e chiede l'anonimato. Che aggiunge: «Quattrocento boarding calling in Piemonte (trasferimenti dal pronto soccorso al reparto  quotidiani ndr) da giorni: viste da qua dentro,  non mi pare che le misure prese in una delle zone più colpite del paese abbiano avuto un grande successo».

Stessa percezione giunge da una sua collega, T.D: «Che devo dire? Le solite cose che tutti sanno ma non smuovono più nessuno? Fuori lo vedo anche io che la situazione non è cambiata granché, ma d'altronde noi medici siamo passati da eroi a collusi e appestati. La zona rossa è una farsa».

Ore diciotto, buio: la tangenziale è nuovamente piena di auto, camion, motociclette. Il popolo della zona rossa torna a casa.

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