Durante questi due anni di emergenza Covid-19, le università di tutto il mondo hanno avviato cambiamenti radicali per consentire la continuità delle lezioni anche a distanza. Molti atenei hanno intrapreso investimenti in infrastrutture e strumenti digitali, per permettere lo svolgimento di lezioni online in contesti flessibili. Grazie a essi, per esempio, i docenti possono fare lezioni ad un gruppo di ragazzi seduti in aula e contemporaneamente rivolgersi a studenti collegati online dall’altra parte del mondo.

La possibilità di insegnare e apprendere senza barriere geografiche è sicuramente uno dei vantaggi più evidenti dell’online learning. Si tratta, però, ora di riflettere sulla fase post emergenziale e su quanto e come mantenere le novità introdotte in questi due anni di (forzata) sperimentazione.

Torniamo al passato?

Oggi, infatti, anche se la didattica a distanza non è più resa necessaria da una situazione emergenziale a livello sanitario, è difficile pensare a un completo ritorno al modello tradizionale di insegnamento.

Ne è un chiaro esempio la decisione di alcune università britanniche, all’inizio di questo anno accademico, di erogare un certo numero di corsi in totale modalità online nonostante le condizioni sanitarie permettessero il ritorno a una didattica on-campus.

Le università si trovano quindi a dover decidere su come sfruttare al meglio gli investimenti tecnologici e l’esperienza nella didattica digitale sviluppati tra il 2020 e il 2021.

Tra gli aspetti centrali di tale dibattito, un posto di rilievo è occupato dal bisogno di interazione sociale tra studenti e tra studenti e docenti, un bisogno che la modalità online non riesce a soddisfare (almeno, non completamente).

Atenei e territorio

Per affrontare al meglio tale questione, è bene tenere in considerazione anche quelli che sono le ricadute positive del legame tra università e territorio.

Le università forniscono infatti laureati altamente formati che possono contribuire significantemente all’economia locale. Non solo: le attività di ricerca condotte negli atenei sono importanti strumenti per promuovere l’innovazione del territorio e il trasferimento tecnologico alle imprese locali.

Si considerino gli effetti più immediati: i poli universitari attraggono numerosi ragazzi e ragazze che si trasferiscono o si spostano quotidianamente nelle città in cui studiano. Per esempio, a Torino (dove vi è una delle università italiane con il numero maggiore di studenti fuori sede), nel 2017 si contava il 75,3 per cento di iscritti residenti in un altro comune, di questi, il 75 per cento in un comune distante più di 23 chilometri dall’università (dati Istat 2017).

Pur non conoscendo ancora quanto questi dati siano cambiati per effetto della pandemia, è possibile ipotizzare una diminuzione significativa del numero degli studenti fuori sede dovuta all’eliminazione del vincolo della presenza in aula per la frequentazione delle lezioni universitarie.

È dunque lecito chiedersi se la prospettiva di università sempre più digitali non rischi di indebolire il loro importante legame con il territorio.

Più università, più Pil

Per meglio comprendere le implicazioni della digitalizzazione della offerta formativa, è fondamentale identificare i meccanismi attraverso cui le università favoriscono lo sviluppo economico del territorio, fornendo un riscontro quantitativo di questo contributo.

In uno studio recente, abbiamo affrontato questo tema attraverso l’analisi di 649 regioni Nuts-3 in 29 paesi europei. I risultati della ricerca portano alla luce alcune, interessanti, considerazioni.

Come dato generale, le analisi mostrano che un aumento del dieci per cento del numero di università nella regione è associato ad un incremento di quasi il cinque per cento nel livello del Pil pro capite del territorio, anche se il contributo degli atenei varia in modo significativo a seconda delle caratteristiche degli istituti.

Tra le attività delle università, la produttività della ricerca ricopre uno dei fattori di maggior importanza per incentivare lo sviluppo economico della regione. Il dieci per cento di aumento del numero di pubblicazioni per ricercatore può generare un aumento medio di circa un punto percentuale del Pil pro capite locale.

Il risultato fornisce uno spunto di riflessione sulla capacità delle università italiane nel trattenere i talenti nella ricerca. Secondo i dati dell’European Research Council, il 15 per cento degli Erc Starting Grants 2021 (Fondi europei per la ricerca) sono stati vinti da ricercatori italiani, ma solo il sette per cento verrà impiegato in una università o centro di ricerca in Italia.

Strategie di incentivazione e politiche mirate per valorizzare la ricerca in Italia sembrano più che mai urgenti, non solo per poter sfruttare finanziamenti internazionali per la ricerca, ma anche allo scopo di promuovere lo sviluppo economico e innovativo del territorio sul lungo periodo.

Anche gli Erasmus contano

Inoltre, il nostro studio indica che la percentuale di studenti Erasmus in entrata nelle università rappresenta una delle caratteristiche di maggiore influenza per lo sviluppo economico della regione. Gli studenti che partecipano a un programma di mobilità contribuiscono infatti all’economia del territorio dell’università ospitante, producendo spese dirette relative, per esempio, agli affitti e all’acquisto di prodotti e servizi offerti da imprese locali.

Qualora gli studenti in mobilità decidano di fermarsi sul territorio anche dopo la laurea, possono fornire un contributo di lungo termine all’economia locale, aumentando l’apporto di capitale umano sul territorio e partecipando direttamente al mercato del lavoro della città o della regione.

Ne consegue l’importanza da parte delle università di investire risorse e sforzi per migliorare e promuovere le strategie e i rapporti internazionali con gli atenei all’estero. Quest’ultima considerazione si collega a un ulteriore risultato della nostra ricerca: la relazione lineare tra numero di studenti iscritti alle università e Pil pro capite della regione.

Le analisi da noi realizzate suggeriscono l’esistenza di economie di scala per le università europee in grado di favorire lo sviluppo economico locale. Grandi università sono associate a minor costi unitari e le risorse fisiche e finanziarie risparmiate possono essere investite per stimolare la relazione con il territorio.

In altre parole, i risultati sembrano indicare l’attivazione di circoli virtuosi tra sistemi universitari ed economia locale. Da un lato, le università aumentano il capitale umano della regione attraverso l’offerta di laureati; dall’altro, lo sviluppo economico del territorio può incentivare fortemente la domanda di educazione universitaria e generare nuove risorse utilizzabili per aumentare la massa critica delle università.

Cercando di rispondere alla domanda iniziale, si comprende quindi come l’aumento delle percentuali di studenti “a distanza” possa alterare fortemente le dinamiche tra università e territorio. In un contesto sempre più digitale e globalizzato, le università potrebbero veder indebolito il proprio ruolo fondamentale di promotore dell’economia locale. Una prospettiva, questa, da cercare di scongiurare.  

© Riproduzione riservata