Dopo altri dieci anni, e mentre questa nuova edizione di Uomini soli va in stampa, cercherò di mantenermi il più lontano possibile dalla sbornia delle celebrazioni che si annunciano per ricordare le uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e quelle di Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa. Ho accettato solo qualche invito. Una chiacchierata con gli studenti di un liceo a Firenze, un dibattito nell’aula della facoltà di Giurisprudenza a Palermo, un incontro con i familiari di Pio La Torre a Trieste. Per il resto grazie, no party. Starò in disparte.

Lascio volentieri i riflettori alla magniloquenza di certe star, veline dell’Antimafia dei pennacchi, acrobati di giochi circensi. Sono certo che non mancherà, fra loro, nemmeno qualche mercenario a presenziare ai solenni riti per commemorare i delitti eccellenti palermitani del 1982 e le stragi del 1992. Probabilmente in estate, e ben distante dalle date degli anniversari, porterò un saluto o un fiore sulle tombe di questi uomini.

Le librerie del mio studio ospitano ormai più di trecento volumi sui massacri di Palermo. Li ho sistemati con cura negli scaffali più alti che sfiorano il soffitto. Sono saggi, instant book, confessioni o interviste di procuratori ancora in servizio e di funzionari di polizia e generali in pensione, direttori dell’amministrazione penitenziaria, familiari di vittime.

Ci sono pure le memorie di qualche pentito che ricicla la sua “cantata” originaria, aggiungendo o togliendo dettagli per adattare il racconto alle esigenze e ai gusti di un nuovo pubblico. Ordinati per data o per autore, uno dietro l’altro i miei libri sugli attentati mafiosi di Palermo di trenta e di quarant’anni fa sviluppano una lunghezza di circa otto metri.

Credo che resteranno lì, impolverati e sui ripiani difficili da raggiungere, per molto tempo. Non ho più voglia di leggere o prendere appunti su pagine intrise di verbali, capitoli pieni di interrogatori, ogni paragrafo che inizia con un “adr”, “a domanda risponde”. Le carte delle stragi, una montagna, le ho lasciate a Repubblica, il giornale dove ho scritto per una vita. Un collega mi ha detto che le hanno custodite in un magazzino e aspettano che io le vada a recuperare. Gli ho risposto, senza troppa convinzione, che lo farò.

Una foto troppo piena

Dopo altri dieci anni mi sembra di sapere meno di prima. Perché sono più confuso, disorientato dalla tempesta di informazioni che mi hanno violentemente recapitato improbabili testimoni resuscitati dai conduttori di talk show che si fanno fotografare sulle riviste con addosso un giubbotto antiproiettile, smemorati di un tempo che oggi vengono smerciati come gole profonde, tutto che è “clamoroso” o “esclusivo”, tutto che è “inedito”.

Ma mai una notizia chiara, comprensibile nella sua evoluzione dall’inizio alla fine. Tortuose a volte anche le ricostruzioni dei magistrati, brandelli di verità che s’incastrano a perfezione in un copione già scritto e che però stridono se trasportate in un contesto più ampio, di respiro criminale più complesso e non sempre di facile ambientazione in un’aula di giustizia. È come l’angolo di campo dell’obiettivo di una telecamera o di una macchina fotografica, più si allarga e più cose e persone vi entrano ma ciò non significa che quell’immagine restituisca l’insieme di quelle cose e di quelle persone, l’essenzialità di un momento o di una vicenda.

Quando nel 2012 ho scritto Uomini soli avevo nel cuore il ricordo dei personaggi che stavo raccontando e, naturalmente, della Palermo in cui avevo vissuto per un quarto di secolo. È una parte della mia esistenza, e non solo professionale, importante, la più importante.

Quello che non capivo allora e mi creava forte disagio – sto parlando di dieci anni fa mentre stavo scrivendo questo libro – era come stesse cambiando la mafia. Non riuscivo a cogliere come stava trasformandosi anno dopo anno, occultando il suo passato di bombe e di sangue. In Sicilia non si sparava più un solo colpo e io però continuavo a parlare dei Corleonesi, di Totò Riina e di Bernardo Provenzano che erano due morti vivi sepolti nei bracci del 41 bis. Continuavo a confezionare inchieste sulla cosca dei Ganci o su Leoluca Bagarella, continuavo a scrivere sempre lo stesso pezzo. Un po’ mi vergognavo. E, sempre uguali, erano anche gli atti polizieschi che si accumulavano sulla mia scrivania, ripetitivi, banali, noiosi. Relazioni degli anni giudiziari, le semestrali della Direzione investigativa antimafia, i resoconti della Procura nazionale. Un copia e incolla delle edizioni precedenti.

La mafia è tornata mafia

Tutti che parlavano di una «mafia silente» o di una Mafia 2.0 o di una Mafia 3.0, tutti che erano alla disperata ricerca di un aggettivo per descrivere qualcosa che a me, cresciuto al centro della Sicilia dove la mafia si respira nella polvere dei paesi ed è scolpita sul viso di certi suoi abitanti, all’improvviso è apparso sorprendentemente evidente come quando ero ragazzino e passeggiavo fra corso Umberto e corso Vittorio Emanuele a Caltanissetta, la mia città.

Il prefetto che baciava il boss del paese, il sindaco che s’inchinava al boss del paese, il presidente della Corte d’Appello che lo ossequiava, il ministro dell’Interno che lo trattava da uomo di rispetto, la gente comune terrorizzata alla vista di quelle indecenti esibizioni. Ho assistito alle stesse messe in scena anche molti anni dopo. E credo di avere capito quel che basta.

Dopo la spaventosa parentesi dei delitti eccellenti del 1982 e delle stragi del 1992, la mafia è tornata mafia. La mafia di sempre, che stava disperatamente cercando di scrollarsi di dosso le scorie velenose che aveva portato Totò Riina. La mafia si è semplicemente riappropriata della sua natura.
In questi dieci anni ho visto sulla prua delle navi della Legalità che attraccavano al porto di Palermo ogni 23 maggio il predicatore senza macchia e peccato e l’avventuriero di Confindustria, l’alta funzionaria del ministero prigioniera di un potere infetto, il lupo travestito da agnello, il malacarne amico dei mafiosi che è diventato il faro dell’Antimafia italiana. Tutti i frutti avvelenati maturati nell’esaltazione del dopo stragi. Con folle osannanti a chiamarli «Giovanni» e «Paolo», «Paolo» e «Giovanni». Per poi continuare a fare sporchi affari o a nascondersi dietro le loro ombre.

Hanno usato l’immagine dei due magistrati come santini, si sono celati dietro i loro nomi, li hanno mitizzati come il bene contro il male con una retorica che ne ha debilitato e snervato le loro figure. Citando frasi di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino come i fanciulli fanno al catechismo. Il mio amico Giuseppe D’Avanzo ne scriveva già qualche anno fa come di «un’umiliante sottrazione di cadavere» per impossessarsi della loro memoria, per «impadronirsi delle loro parole e delle loro azioni», con lo scopo di «agitarli come una mazza contro gli antagonisti del momento». Celebrazioni sempre più vuote e ampollose, fanfare, carabinieri a cavallo.

In questi dieci anni simbolo dell’Antimafia italiana è diventato un uomo che era «nel cuore» di un capo della Cosa Nostra, è la storia di Calogero Antonio Montante detto Antonello. Pur con radici in ambienti criminali è riuscito a costruire in Italia un sistema di potere in nome della legalità, grazie al ministro dell’Interno Angelino Alfano ha avuto una nomina nel consiglio dell’Agenzia dei beni sequestrati alle mafie. Si è scambiato cortesie con i capi dei servizi segreti, i direttori della Dia, generali dell’Arma e della Finanza, alla sua corte c’era anche una folta pattuglia di giornalisti.

Quei magistrati distratti

E di magistrati. E non magistrati qualunque, ma magistrati specializzati in indagini antimafia. Gli sedevano accanto ai convegni parlando, nei loro dotti e vaporosi interventi, di come stava cambiando la mafia senza accorgersi che avevano accanto un rappresentante della «mafia trasparente», così come l’ha chiamata una giudice siciliana che quel Montante ha condannato.

In questi dieci anni ho smarrito per strada qualche amicizia e non ne sono affatto felice, fra le perdite ci sono alcuni di quei magistrati che avevo sempre apprezzato ma che hanno dimostrato di sapere molto della mafia che c’è sulle loro carte e poco o niente della mafia che c’è per le strade.
In questi dieci anni è sopravanzata anche l’idea molto rassicurante che delitti eccellenti e stragi siano stati compiuti solo da Totò Riina e dagli artificieri di sperduti paesi siciliani. Nessun altro sotto o sopra o insieme a loro, nessun mandante esterno. È una tendenza questa, di caricare ogni colpa solo e soltanto alla mafia, che piace. Perché tranquillizza ciascuno di noi, non ci sono complici, ci sono solo cattivi e noi siamo i buoni.

Mi è capitato di leggere, e in più occasioni, stupidaggini anche sull'omicidio di Pio La Torre, con «esperti» di cose siciliane che incalzavano e sbeffeggiavano gli interlocutori con frasi del tipo «sì, è stata la Cia», «sì, sono stati i Poteri Occulti», «perché non vi basta la mafia?», dimenticando o facendo finta di ignorare che La Torre aveva scoperto, poco prima di finire come è finito, trame internazionali intorno alla base missilistica di Comiso e tracce sulla Gladio siciliana. Per almeno vent’anni i nostri apparati di sicurezza hanno pedinato e controllato l’onorevole Pio La Torre, considerandolo una sorta di spia del Kgb, i servizi di sicurezza dell’Unione Sovietica. Una settimana prima del suo omicidio, avvenuto in una via di Palermo la mattina del 30 aprile del 1982, hanno abbandonato l’“osservazione” del loro obiettivo. Non era più interessante per loro Pio La Torre. I sicari erano già in agguato. Naturalmente una coincidenza.

La narrazione che tranquillizza

anni '80 archivio storico Rocco Chinnici (Misilmeri, 19 gennaio 1925 – Palermo, 29 luglio 1983) è stato un magistrato italiano. Il suo nome è legato all'idea dell'istituzione del "pool antimafia", che diede una svolta decisiva nella lotta alla mafia. Fu assassinato da Cosa nostra. nella foto: Omicidio Giudice Chinnici Rocco. Busta n° 5955

Quando si ricorda il consigliere Rocco Chinnici, il magistrato che si è inventato il pool antimafia al Tribunale di Palermo, saltato in aria a Palermo il 29 luglio 1983 in un attentato alla libanese, ancora oggi si parla solo di Giovanni Brusca, il boia di Capaci. Ma mai dei Salvo, Nino e Ignazio, gli esattori mafiosi, gli uomini più potenti della Sicilia dell’epoca che Chinnici aveva messo sotto indagine e che lo portavano a collegare la mafia che spara a Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio e ventuno volte ministro della Repubblica.

Un revisionismo che raccoglie consensi in una platea molto vasta, un dilagante conformismo che tranquillizza, una narrazione che scagiona noi tutti, favoreggiatori e indifferenti, furbi e miserabili.
Cambiando scenario potrei ancora parlare a lungo di quel procuratore nazionale antimafia che, con la sua scorta, attendeva per ore alla fontana Esedra in piazza della Repubblica a Roma notizie sul suo destino in toga da quel Luca Palamara, magistrato cacciato dalla magistratura, mentre un trojan captava conversazioni su nomi da mettere qua o là, ai vertici delle procure o delle Corti di Appello, un posto a me e un posto a te. Senza vergogna.

Giochi di correnti giudiziarie, le stesse correnti che avevano isolato e ucciso Giovanni Falcone nella sua breve e tormentata esistenza. O potrei ancora scrivere dei silenzi, che ormai neanche posso definire inquietanti ma solo grotteschi, di quel prete che non ha mai speso una sola parola a favore dei poliziotti o dei magistrati che hanno scoperchiato lo scandalo del caso Montante ma, al contrario, si è augurato che «Antonello possa dimostrare la verità». Ma quale verità conosce quel sacerdote che è un leader carismatico dell’Antimafia? Perché non ce la rivela, perché non ci illumina?

Forse non vale nemmeno più parlare di queste maschere di un’Antimafia antistorica e tremula, filogovernativa a prescindere, sempre attenta a non dispiacere chi comanda, mai un nome, mai un soprassalto che non sia ridondante e vacante. Mi fermo qui, un po’ nauseato dall’appiattimento culturale, dalle convenienze, dal contagio.

E mentre loro sfilano, urlano, si strusciano, i destini del Comune di Palermo e della Regione Siciliana sono nelle mani degli stessi uomini di trent’anni fa. Condannati per mafia come l’ex governatore Salvatore “Totò” Cuffaro e il senatore Marcello Dell’Utri che alla luce del sole scelgono candidati, spostano voti, controllano apparati. Interdetti dai pubblici uffici per sentenza, rivendicano una libertà d’espressione che in realtà certifica il ritorno dei vecchi padroni dell’isola.

Un articolo di 28 anni fa

Qualche mese fa la Questura di Roma mi ha notificato una convocazione «urgente». Mi informava che, pochi giorni dopo, mi sarei dovuto presentare in una struttura di polizia sull’Anagnina, gli uffici dello Sco, il servizio centrale operativo della polizia. Ho disdetto gli impegni e ci sono andato. Ho trovato tre magistrati che conoscevo, uno della Procura nazionale antimafia, uno della Procura della Repubblica di Caltanissetta che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino, il terzo della Procura della Repubblica di Firenze, quella dell’inchiesta sulle bombe ai Georgofili del 1993.

Mi hanno ascoltato per circa un’ora su un articolo di ventotto anni prima su Silvio Berlusconi, che ho scritto nel marzo del 1994 insieme al mio amico Giuseppe D’Avanzo. Ho risposto a tutte le domande nei limiti che il segreto professionale mi impone, e con il rispetto che si deve a loro, i magistrati, e al loro difficile lavoro nella ricostruzione dei misteri mafiosi. Ma sono tornato a casa stordito. Già in quelle settimane cominciava a circolare sempre più insistente la voce sulla candidatura di Berlusconi al Quirinale e, appena un anno prima, mi era capitato di firmare con il collega Nello Trocchia, su Domani, il mio nuovo giornale, una doppia pagina sulle ultime indagini che coinvolgono il nostro ex presidente del Consiglio negli attentati dell’estate del 1992.

Per un momento mi sono immaginato nella stanza di quell’ufficio di polizia sull’Anagnina, io seduto su una sedia e interrogato, davanti a me i tre procuratori che mi facevano domande su quell’articolo su Berlusconi e, alle loro spalle, la foto sorridente dell’indagato eccellente ormai diventato Capo dello Stato, pomposamente incorniciato e sfiorato dalla bandiera tricolore che penzolava mesta.

Un abbraccio che disturba

Massimo Ciancimino (LaPresse/Guglielmo Mangiapane)

Mi congedo dagli anniversari siciliani numero 30 e numero 40 con due ricordi che disturbano i miei pensieri. Il primo mi riporta a un’immagine, una foto. Siamo nell’aula dove si sta celebrando il processo sulla famigerata trattativa Stato-mafia, lo scatto fissa l’abbraccio fra Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, e Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, il sindaco mafioso di Palermo. Un colpo al cuore, la fine della ragione. Per me è stato il segno di una sconfitta che sento anche mia.

Chiudo con il racconto di una serata, a Milano, a casa dell’editore di Zolfo Lillo Garlisi. Dopo una cena sicilianissima è saltata fuori dalla dispensa una bottiglia di pregiato rum cubano, eravamo in tre e ce la siamo scolata in meno di un’ora. A tavola ci siamo fatti anche un po’ di male, abbiamo parlato di Pio La Torre e di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Verso le quattro del mattino uno di noi ha detto qualcosa ma il giorno dopo, complice il rum, nessuno – né l’amico Piero Melati, né Lillo Garlisi e né io – ricordava chi avesse pronunciato quella frase che ancora ancora oggi ci tormenta. Non si sa chi, nel cuore della notte, ha ammutolito gli altri con queste parole: «Nessuno dei grandi delitti di mafia di Palermo è un delitto di mafia».

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