Vent’anni dopo, alle nove della sera c’è lo stesso silenzio che c’era allora, quando Erika camminava sulla strada vuota con la sua tuta da ginnastica e i piedi scalzi sporchi di sangue, urlando «hanno ammazzato mamma, hanno ammazzato la mamma!».

C’erano le luci accese e le finestre chiuse, le foglie che tremavano al vento nei giardinetti stretti fra le siepi di bosso, qualche pianta e una betulla, e soltanto lei e quelle grida che straziavano la quiete di via Decatra, quartiere Lodolino, periferia residenziale di Novi Ligure, il paese di Coppi e Girardengo addormentato sulle colline. Perché l’orrore è fatto così. Arriva all’improvviso, come se fosse già dentro di noi senza che lo sappiamo, e devasta ogni cosa.

Orrore di periferia

Quella sera si fermò qui, in quest’angolo così ordinato e così comune, con le sue villette color salmone e le tende parasole a righe bianche e gialle, i gerani sui balconi, i giardinetti curati e queste luci accese e queste finestre chiuse sulle grida di Erika. Si fermò qui, nell’ultima frontiera della nostra paura, dentro al ritratto di un paese costruito dai geometri nell’epoca della sua fortuna, con le sue oasi di tranquillità, dove crescere i figli nel silenzio che adesso ci spaventa e in questo isolamento che ci condanna, fra i brandelli di un mondo che avevamo sognato.

Oggi la via si chiama Caduti di Nassirya. Ma è rimasto lo stesso ordine quasi irreale, fra le stradine tutte linde e pulite e i giardini rimessi a nuovo. Passato l’orrore è come se tutto fosse tornato al suo posto. Erika è uscita dieci anni fa dal carcere e si è sposata. E Omar un anno prima di lei: è stato processato per aggressione dopo aver pestato un giornalista, ha avuto un figlio dalla sua compagna e ora fa il barista in Toscana. Francesco De Nardo, il papà di Erika, passa qui quasi tutte le mattine, al numero 12. Ritira la posta, mette in ordine le cose e ricompone i ricordi. Non ha mai abbandonato la figlia. «Tu devi vivere per me», le aveva detto quella sera, senza riuscire ad alzarsi dal marciapiede, «perché io sono morto lì dentro, con la mamma». Non sapeva ancora che l’orrore non veniva da fuori, ma era dentro la sua casa, apparteneva alla loro vita, e a quella di tutti noi che restiamo incollati a queste finestre.

Era il 21 febbraio 2001. Come recita il verbale, i carabinieri arrivarono alle 21.30, fecero salire in macchina Erika e la riportarono a casa. Lei urlava e piangeva, il viso stravolto. Al numero 12 il cancelletto era aperto. Un cartello: «Attenti al cane». Due spinoni adesso abbaiavano e ringhiavano. Tutte le luci erano accese. Entrarono. Il corpo della mamma di Erika era steso in una grande pozza di sangue, allungato di schiena sul pavimento della cucina. Salirono le scale. In bagno, il viso di Gianluca, il fratellino di 11 anni, sporgeva dall’acqua arrossata. L’avevano maciullato. Uno dei carabinieri disse che non avrebbe mai più voluto rivedere una scena così terribile.

Erika raccontò che erano stati due ladri, extracomunitari, albanesi o rumeni: li avevano aggrediti dopo essere stati scoperti. Lei si era salvata per miracolo tirando una bottiglia di whiskey in testa a uno di loro ed era corsa via scappando dal garage. Quando arrivò il padre, i carabinieri gli dissero di non entrare. Erika fece una deposizione circostanziata e poi aiutò i disegnatori a tratteggiare gli identikit. La sera stessa, mentre impazzavano le manifestazioni e i cortei contro gli extracomunitari, arrestarono un albanese, Cezar Tellalli, che corrispondeva quasi perfettamente a uno dei profili indicati da Erika. Il caso sembrava già risolto. Peccato che quello avesse un alibi di ferro, perché aveva passato la serata al bowling e decine di testimoni lo confermavano.

Famiglia perfetta

Eppure all’inizio nessuno riusciva a immaginare che l’orrore potesse appartenere a questa famiglia modello, molto unita. Susanna Cassini, la mamma, 42 anni, aveva studiato ragioneria al collegio cattolico San Giorgio, era religiosissima, insegnava catechismo in parrocchia, faceva volontariato ed era appena stata nominata responsabile di un gruppo famiglia, per meriti acquisiti, in pratica, perché le dicevano che la sua famiglia era un esempio, sempre assieme, pure in palestra, in montagna, nella loro casa di Monginevro, e in Chiesa, alla Messa.

Anche se la figlia più grande, Erika, non ci andava molto volentieri. Lei è bravissima a pallavolo, pratica il kick boxing, la boxe totale, e alle funzioni religiose preferisce la discoteca. Le piacciono i Lunapop e Jim Morrison, rock psichedelico, droga e whiskey, poeta maledetto simbolo dell’inquietudine giovanile. Erika è umorale, ribelle, indisciplinata e con uno scarsissimo rendimento scolastico. Hanno dovuto toglierla dal liceo scientifico e metterla all’istituto per geometri dei preti. Esce con un ragazzo che in famiglia non piace per niente, Mauro Favaro, chiamato Omar dagli amici, figlio di un camionista che ha aperto un bar in periferia con i soldi risparmiati, perché girano voci che spacci droga.

Il fratellino di Erika, Gianluca, 11 anni, è dolce e bello, gioca a calcio e basket, fa il chierichetto nella parrocchia della Pieve dove papà e mamma si sono sposati. Il papà, Francesco De Nardo, è figlio di immigrati calabresi. Il padre operaio ha fatto sacrifici per farlo studiare e lui s’è laureato come ingegnere e poi è entrato alla Pernigotti, salendo tutti gli scalini fino a diventare dirigente. Sono tutti sportivi, papà, mamma e figli. E lui quella sera era andato a giocare a calcetto con gli amici. Com’è possibile che l’orrore appartenga a questa famiglia?

Dalle case accanto dissero che non avevano sentito niente, neanche i cani abbaiare. C’era un gran silenzio, come quando Erika uscì per strada a gridare. A indirizzare le indagini spuntò una testimonianza. Una vicina disse di aver visto poco prima delle 9 Omar che correva per strada tutto insanguinato. In mezzo alla folla che s’era ammassata in via Decatra c’era anche lui. Ai carabinieri disse che l’aveva chiamato Erika, disperata: «Hanno ucciso mia mamma, vieni». Ma dai tabulati non risultava quella chiamata. Per di più aveva una ferita alla mano. Il giorno dopo i carabinieri li convocarono in caserma. Prima di interrogarli, li misero in una stanza riempita di cimici e videocamere.

Traditi

Le immagini li tradirono subito: più che due fidanzatini, sembravano due complici. Si abbracciavano, si facevano coraggio. Lui si lamentava: «Uno degli identikit mi assomiglia troppo, vedi di cambiarlo». Lei: «Stai tranquillo, sono l’unica testimone». Fra un sussurro e l’altro, Erika mimò anche il gesto di una coltellata. A questo punto non c’erano più dubbi. Loro continuavano a tenere duro, ma ormai troppi indizi s’erano incastrati. Quando arrivarono i Ris nella casa dell’orrore, ricostruirono anche la dinamica della mattanza. La mamma era stata uccisa con 40 coltellate. Aveva lottato per difendersi, ma fu sopraffatta sotto lo sguardo atterrito del fratellino richiamato dalle urla. La prima coltellata gliel’ha data forse Omar, che s’era messo i guanti per non lasciare impronte e s’era nascosto in bagno, mentre Erika e la mamma stavano litigando a muso duro. Poi cominciò la mattanza.

Prima di morire, Susanna con l’ultimo filo di voce che le era rimasto parlò a sua figlia: «Io ti perdono... Ma salva tuo fratello». I due però decisero che non potevano lasciarlo come testimone. Lo inseguirono per tutta la casa. Fu massacrato con 57 coltellate. Qualche giorno prima aveva scritto sul tema: «La mia migliore amica è mia sorella». Omar si ferì in questa fase, quando Gianluca per liberarsi gli dette un morso alla mano.

Erika non ha mai confessato pienamente. Nel suo laconismo tragico ha sempre ripetuto che lei aveva solo assistito, proteggendo poi il fidanzato perché lo amava troppo. I giudici hanno ritenuto le sue dichiarazioni mendaci. Anche Omar ha ogni volta tentato di alleggerire la sua posizione. Don Mazzi s’è quasi commosso per dire quanto Erika è cambiata oggi, e che agì sotto l’effetto della droga. Sniffava cocaina. Ora vive nel bresciano, s’è sposata, ha lavorato in un negozio di dischi, che poi ha chiuso. Omar s’è fidanzato con una conosciuta su una chat che poi è andata in tv, spiegando che lui nel sonno vive ancora gli incubi di quella notte.

È vero che la vita cambia le persone. Ma molte cose sono rimaste come allora, ed è difficile liberarsene. In via Nassirya anche adesso tira un vento freddo. E c’è un gran silenzio sotto la luna.

© Riproduzione riservata