«Era inverno, faceva freddo ed era buio. Il tragitto ufficio-stazione: strade deserte e poco illuminate, il piazzale isolato, un labirinto buio di auto. La rampa in discesa verso i binari, anch’essa semibuia, piena di punti ciechi: “Questa cosa sembra averla progettata uno stupratore seriale”».

A raccontare l’aneddoto è un uomo, a dire la frase finale una donna, rimasta un’ora ad aspettarlo a fine turno lavorativo, per avere compagnia. L’uomo scrive su Twitter in relazione a un recente fatto cronaca che ha visto due donne vittime di violenza sessuale su un treno: le passeggere, entrambe in viaggio tra Milano e Varese, sono state aggredite in momenti diversi, dagli stessi due uomini.

Ne è seguita una petizione online, “Vogliamo viaggiare sicure”, che al momento ha superato le 8.000 firme, che chiede carrozze dedicate alle sole viaggiatrici. «Io, da maschio, non avrei mai visto pericolo in quella barbarie architettonica», aggiunge l’uomo su Twitter.

Urbanistica femminista

Se le città siano luoghi per donne ha iniziato a chiederselo l’urbanistica femminista negli ultimi decenni, studiando come una città si disgrega nelle sue diversità. Si parte dai ruoli di genere imposti, quindi dal dato e dalle necessità attuali, per una pianificazione urbana più aperta.

Il grande sviluppo urbano del XX secolo ha ricalcato quello capitalistico e del lavoro, dei maschi lavoratori nello specifico. Le donne, oggi come allora, vivono per lo più lo spazio domestico e usufruiscono diversamente della città. 

«Sicurezza, cura e riconoscimento delle diversità, sull’unione di questi tre aspetti ragiona l’urbanistica femminista», spiega Marcella Corsi, professoressa di Economia alla Sapienza di Roma.

Molte città si muovono in questa direzione: Vienna, Stoccolma, Barcellona, Gand, ma modello è Medellin in Colombia, che per prima ha sviluppato un’urbanistica inclusiva. Un elemento da cui partire, vista anche la conformazione storica delle città italiane, sono gli spazi comuni: possono essere orti urbani, spazi verdi per i bambini, ma anche centri di accoglienza per i migranti e le realtà associative.

«A Roma abbiamo l’esempio di Lucha y Siesta e della Casa internazionale delle donne, ma ce ne sono a decine in Italia – aggiunge Corsi – Il riconoscimento della diversità è un valore: che sia legato alla disabilità, alla religione, per orientamento sessuale o nazionalità. Ma deve esserci autodeterminazione e controllo sociale».

Lo spiega bene Leslie Kern, nel suo La città femminista. Nel movimento femminista queste città sono dette «della cura»: sicurezza sì, ma non in funzione separatista. Interessanti sono i fenomeni che nascono dal basso, come le app per il monitoraggio degli spazi, una è w-her, start up per le segnalazioni di pericoli o MappaRoma che intercetta i cittadini e gira le domande a chi gestisce le istituzioni. Mentre DonnexStrada, attiva una chiamata in caso una donna voglia avere compagnia. 

Una città per tutte

«La città femminista è una città per le esigenze di tutte, come le migranti o le donne trans. Ma le politiche di mobilità se ne dimenticano», nota Corsi. Esiste una mobilità di genere: le donne usano di più i mezzi – gli uomini prediligono l’auto – e lo fanno negli orari meno coperti (tarati invece su quelli lavorativi), si muovono per tragitti più brevi, ma compiono più fermate per commissioni varie.

Riflesso della divisione dei compiti all’interno del nucleo familiare e del lavoro assistenziale non retribuito: cura dei bambini, di anziani e organizzazione della vita in casa, sono prerogative femminili. Così come le molestie (altissime anche tra la comunità Lgbt): palpatine, osservazioni volgari, avance, uomini che si masturbano. Fino a casi di violenza più gravi.

Gli stratagemmi per limitarle, vengono con gli anni: no mezzi nelle ore notturne o con meno traffico, optare per il tragitto più sicuro, passare per strade meno isolate o farsi accompagnare.

Le donne si adattano a qualcosa che non dipende da loro e la petizione sembra andare in questa direzione, una sorta di ghettizzazione. Sembra che Rosa Parks, con la sua protesta contro la segregazione razziale, contro i bus divisi tra bianchi e neri, non sia mai esistita. Come Golda Meir, prima ministra d’Israele, che alla proposta di un coprifuoco per donne, rispose: «Che stiano gli uomini a casa». 

Ghetti su ruote

Negli anni idee di questo tipo sono arrivate dai rabbini ultraortodossi a Gerusalemme, che osteggiavano i «bus promiscui», e dai razzisti di tutto il mondo. In Italia si sono chiesti pullman per soli rom o richiedenti asilo. Matteo Salvini nel 2009, da capogruppo della Lega in comune a Milano, ha chiesto carrozze metropolitane per «soli milanesi», separate dai detestati «extracomunitari».

Carrozze per sole donne ci sono in India, Giappone, Egitto, Brasile, Messico, sono indicate in rosa. Meglio di quanto avviene in Iran, con la polizia religiosa e una rigida separazione, ma frutto dello stesso principio di protezione. La direzione dovrebbe essere quella della ripresa degli spazi, non della loro cessione. E che sia l’istituzione a dover imporre la divisione per vagoni – invece che aumentare i controlli o prevedere linee notturne, ad esempio – dovrebbe preoccupare, non rassicurare.

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