Può darsi che, come sostiene qualche commentatore al di qua delle Alpi, interrogarsi sugli altri attori del secondo turno delle elezioni legislative francesi sia un esercizio ozioso, dato che fra poche ore si celebrerà il trionfo di Emmanuel Macron, presidente e capo di una maggioranza blindata all’Assemblea nazionale.

A Parigi e dintorni, però, sono in molti a non pensarla così. I giornali di diverse tendenze parlano di forti preoccupazioni all’Eliseo e di un clima «febbrile» venutosi a creare nell’entourage del capo dello stato di fronte alle più recenti inchieste demoscopiche. Alcuni politologi scrivono di una probabile difficile governabilità nei prossimi cinque anni.

E le truppe di Jean-Luc Mélenchon battono alacremente il territorio per rendere realizzabile il sogno che da un paio di mesi coltivano: disporre di un numero di seggi in parlamento tale da mettere i bastoni fra le ruote ai progetti governativi contro cui si appuntano le loro più forti critiche, a partire dalla riforma delle pensioni.

Se questa agitazione – singolare, in un paese che sembra vivere con indifferenza la vigilia dello scrutinio decisivo, preoccupandosi molto più dell’ondata canicolare che sta toccando i 40 gradi nella capitale che del duello in atto tra i partiti e le coalizioni – produrrà i frutti sperati, lo si vedrà a breve.

Per adesso, si possono registrare alcune questioni aperte dal voto di una settimana fa e destinate a incidere non solo sul risultato definitivo del confronto ma anche, e forse soprattutto, sulla dinamica politica transalpina dei prossimi anni.

A sinistra

A sinistra, il responso delle urne peserà, e molto, sugli equilibri interni all’area. Se i candidati della Nupes provenienti dalle file de La France insoumise faranno registrare un gran numero di successi, il loro ruolo trainante all’interno della coalizione sarà fuori discussione e fra gli alleati si apriranno dibattiti tutt’altro che pacifici.

Già si sono viste, durante la campagna, scintille e sgarbi fra seguaci di Mélenchon e comunisti, con i secondi tutt’altro che disposti, malgrado il limitato patrimonio di consensi, a farsi comandare da ex trotzkisti e spontaneisti, di cui detestano l’allontanamento dalla classe operaia e il radicamento nella borghesia intellettuale.

Ma anche verdi e socialisti rischiano di pagare un prezzo elevato per gli accordi sottoscritti: se gli obiettivi prefissati non fossero raggiunti, le minoranze moderate alzerebbero i toni delle proteste, fino a prendere in seria considerazione le ipotesi di scissione.

Il campo macronista

Nel campo macronista, la prospettiva del mancato conseguimento della maggioranza assoluta dei seggi ha già messo in moto reazioni inattese. Vari esponenti di Renaissance, l’ex République en marche di stretta obbedienza presidenziale, estromessi dai ballottaggi, hanno rifiutato di seguire le consegne di pronunciarsi, in caso di duello Nupes-Rassemblement national, a favore dei candidati di sinistra.

Il loro ragionamento è ovvio: quanti più successi raccoglieranno Mélenchon e i suoi, tanto più arduo sarà il cammino parlamentare dell’azione del governo Borne; meglio quindi lasciare qualche scranno in più al ben poco influente gruppo lepenista. Queste prese di posizione hanno portato ad alcune espulsioni, ma c’è chi pensa (o teme) che abbiano suscitato consensi in un elettorato centrista che vede l’islamo-gauchisme di Mélenchon e i suoi preannunci di espansione della spesa pubblica come il fumo negli occhi.

A destra

Come accade ormai da mesi, però, l’ansia per i risultati dei ballottaggi è forte soprattutto a destra. I Républicains, rassegnati a un ridimensionamento, contano di salvare il salvabile nelle tradizionali roccaforti e trasformare il 10,42 per cento del primo turno in una percentuale equivalente dei 577 seggi della Camera, doppiando il Rassemblement national, che aveva raccolto oltre otto punti percentuali più di loro.

Confidano infatti nel sostegno degli elettori di sinistra nei 25 scontri faccia a faccia con i lepenisti e di quelli dei lepenisti nelle 24 circoscrizioni dove hanno a che fare con candidati di sinistra. Il gioco è loro riuscito quasi sempre in passato e potrebbe ripetersi.

E se il fronte pro Macron si trovasse a non disporre dell’autosufficienza numerica all’Assemblea, potrebbe proiettarli – pur a rischio di notevoli lacerazioni interne tra collaborazionisti e intransigenti – in un ruolo decisivo, a cerniera fra maggioranza e opposizione. Nicolas Sarkozy si sta già spendendo in questa direzione e le ennesime dichiarazioni anti Rassemblement national dell’ala progressista del partito guardano allo stesso risultato.

Nel frattempo, tra populisti e sovranisti le distanze restano marcate, se non addirittura accentuate. Galvanizzato dalla notizia che l’1 per cento superato dai suoi candidati in almeno 50 circoscrizioni e il quasi milione di voti raccolti al primo turno garantiranno per cinque anni alla sua Reconquête! poco meno di un milione e quattrocentomila euro l’anno di finanziamento statale, Éric Zemmour si è risvegliato dal torpore ed è ripartito all’assalto di un ruolo politico di primo piano.

Ha comunicato alla redazione di Le Figaro l’intenzione di non reintegrarsi, reclamando la liquidazione di oltre 25 anni di collaborazione, e ha rivolto ai suoi elettori, con studiata ambiguità, un appello a «sbarrare la strada a Mélenchon e a Macron» senza citare il Rassemblement national.

In contemporanea, alcuni dei suoi sostenitori più presenti sul web hanno apertamente dichiarato la loro decisione di astenersi, mentre sui blog e siti zemmouristi riprendeva a pieno ritmo la campagna contro Marine Le Pen, accusata di essersi «sottomessa al sistema» e di aver rifiutato l’accordo con Reconquête! per mera volontà di mantenere il controllo sulla sua «bottega elettorale». La stessa accusa mossa per decenni al padre Jean-Marie da tutti coloro che si sono staccati dal Front national (e oggi in buona parte si ritrovano fra i dirigenti, i militanti e gli elettori di Zemmour).

A questa manifesta ostilità, che pure ha già prodotto notevoli danni – per fare un non isolato esempio: nelle tre circoscrizioni delle Alpi Marittime, attorno a Nizza, dove i voti cumulati di Rassemblement nationale e Reconquête! avrebbero issato al primo posto un candidato unico, la loro divisione li ha eliminati entrambi – Marine Le Pen non ha replicato, puntando ancora una volta su quel basso profilo che da destra le è rimproverato e da sinistra è derubricato a semplice tattica.

Ma è difficile immaginare, malgrado i sorrisi e l’apparente tranquillità esibiti nelle non frequenti apparizioni mediatiche degli scorsi giorni, che dentro di lei non alberghi una certa dose di ansia per il risultato dei ballottaggi.

Sa già che la grande maggioranza dei suoi 208 portacolori non potrà festeggiare l’elezione, vittima della convergenza delle diffidenze, delle antipatie e persino degli odi di quanti, malgrado gli sforzi profusi, insistono a considerarla come una «minaccia per l’ordine repubblicano» o la reincarnazione dell’idra fascista. Ma la portata complessiva dei loro risultati non le sarà certamente indifferente.

Se infatti l’obiettivo della costituzione di un gruppo parlamentare – 15 deputati – appare a portata di mano, sono altri i traguardi che misureranno il valore della sua leadership. Se ne ottenesse il doppio, o addirittura superasse i 36 che il padre conquistò nel 1986, nell’unica esperienza di elezione proporzionale della Quinta Repubblica, consoliderebbe il credito riscosso con il 41 per cento della presidenziale.

Se, come sogna qualcuno dei suoi luogotenenti, fiducioso nelle cifre di alcuni sondaggi degli ultimi giorni, andasse ben oltre, insidiando o addirittura scavalcando i Républicains, il suo partito potrebbe acquistare un ruolo inedito e aprire una crisi letale nel campo post gollista. Ma questo al momento sembra, appunto, un sogno.

Il presente è fatto di sfide insidiose, soprattutto da parte di sovranisti e nazionalisti. Un segnale, l’ennesimo, di questa concorrenza tutt’altro che disposta ad arrendersi, lo ha dato la nipote Marion Maréchal quando, accompagnando sulle reti sociali un’immagine della figlia Clotilde avuta con il marito, l’europarlamentare leghista e oggi di Fratelli d’Italia Vincenzo Sofo, appena partorita, ha scritto di avere così «un’ulteriore ragione per battersi per la Francia».

Il che, si potrebbe leggere sottotraccia, significa continuare a battersi, da vicepresidente di Reconquête!, con Zemmour e contro la zia Marine. Curiosa prospettiva per chi da un decennio non smette di sostenere la necessità di creare un’unione delle destre.

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