Gli istituti di pena si strutturano secondo una rigida divisione di genere, una divisione che mostra tutte le sue fragilità quando si interfaccia con la natura delle persone trans
«Le case circondariali, tutte le volte che si confrontano con una persona appartenente alla comunità Lgbtqia+, si pongono sempre lo stesso problema: qual è il posto in cui la presenza di questa persona mi causa meno problemi?», dice a Domani Rachele Stroppa, ricercatrice dell’associazione Antigone. Il carcere si struttura secondo una rigida divisione di genere, una divisione che mostra tutte le sue fragilità quando si interfaccia con la natura delle persone che binaria non è mai stata.
«Il criterio di assegnazione in carcere si basa ancora sull’aspetto biologico. Il carcere guarda i genitali dei detenuti per scegliere dove debbano essere collocati. Il problema però sorge con le persone trans che non si sono sottoposte, per scelta o per tempismo, a un intervento chirurgico ai genitali. Succede che una detenuta sia considerata donna sui documenti dello Stato ma uomo dal penitenziario perché i suoi caratteri sessuali primari sono quelli maschili. Se il carcere non ha una sezione dedicata, finisce in cella con gli uomini nonostante la legge italiana dica che non c’è bisogno della rimozione dei genitali maschili per essere considerati una donna» dice la ricercatrice.
Sezioni protette
Domenica 29 giugno una detenuta trans nel carcere di Ferrara ha denunciato di aver subito uno stupro di gruppo. Nonostante fosse donna, era detenuta nella sezione maschile, aveva già chiesto all’amministrazione di essere trasferita perché lì non si sentiva al sicuro.
«Sono solo sei i penitenziari italiani che hanno una sezione dedicata alle donne trans: Ivrea, Como, Reggio Emilia, Belluno, Rebibbia e Napoli Secondigliano. Nel 2018 è stata fatta una riforma dell’ordinamento penitenziario e nell’articolo 14 comma 7 c’è scritto che una persona detenuta può chiedere per motivi legati al proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere di essere trasferita in sezioni definite dalla legge “protette omogenee”, quelle che noi chiamiamo appunto sezioni per le donne trans. Per farlo, serve la loro firma», dice Stroppa.
Nell’ordinaria vita del carcere, però, le cose vanno diversamente: succede che una detenuta trans venga mandata quasi automaticamente in una sezione protetta se, al momento dell’ingresso, il carcere che la ospita ne ha allestita una. Oppure, succede che venga mandata nella sezione maschile se la casa circondariale è sfornita.
Principio di territorialità
Chiedere un trasferimento in una sezione protetta, però, può significare cambiare carcere e, quindi, ledere il diritto delle persona detenuta a scontare la pena il più possibile vicino al luogo di residenza. Si tratta del cosiddetto principio di territorialità che garantisce ai detenuti la prossimità agli affetti.
«Di fatto le donne trans sono costrette a scegliere l’incolumità a discapito della socialità. La protezione dagli abusi e dalle molestie viene fatta al costo di una detenzione ancora più marginalizzata in una struttura già di per sé isolata dal mondo come il carcere. Significa avere ancora meno opportunità, soffrire la solitudine, rischiare di diventare trasparente agli occhi di un sistema che invisibilizza le persone».
A oggi, le persone appartenenti alla comunità Lgbtqia+ non sono soggette ad alcuna indagine statistica. Non esistono agli occhi dell’amministrazione: gli unici dati disponibili risalgono al 2023 e non sono esaustivi, si riferiscono soltanto alle donne trans e agli uomini omosessuali.
È impossibile stimare l’abuso dei farmaci e degli ormoni o il grado di malessere delle donne trans in carcere: «Chi entra in carcere come me può solo limitarsi a fare delle valutazioni sulla propria esperienza empirica che ci dice che sì, queste persone soffrono tantissimo, ci raccontano di episodi di autolesionismo. Altre ci dicono che prendono psicofarmaci per sopportare la detenzione, prima non ne avevano avuta la necessità», dice Stroppa.
Gli studi
Ad aprile 2024 l’associazione Antigone ha aderito a un progetto finanziato dalla Commissione europea per elaborare uno studio in grado di descrivere le condizioni detentive di questa comunità. Alcune ricerche etnologiche sull’argomento che permettono di fare alcuni ragionamenti, comunque, esistono già: il ricercatore trans Carmine Ferrara ha svolto un’indagine nella sezione per le donne trans del carcere di Poggioreale a Napoli (ora chiusa e riaperta a Secondigliano).
La ricerca ha promosso il dialogo e la condivisione delle esperienze cercando di far emergere come una istituzione totale genderizzata quale il carcere è si riflettesse nella vita delle donne trans. Per agevolare la riflessione, è stato proposto di disegnare i luoghi che abitano: il proprio corpo, la loro casa, il carcere.
«Significativo e illuminante è il disegno di Brenda (nome di fantasia) che disegna la propria casa come una fortezza con il cancello e le torri come a raccontare il bisogno di difendersi dall’ambiente esterno. Il carcere, invece, lo raffigura con una metafora: un barattolo di vetro che ne contiene un altro al cui interno c’è una farfalla che non può volare a causa del poco spazio. Accanto la scritta “Il carcere e il mio corpo due prigioni!”, come se la condizione carceraria fosse l’amplificazione di una condizione detentiva interiore», dice Ferrara a Domani.
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