Giuseppe Sartori, professore emerito di Neuropsicologia forense all’università di Padova e consulente in molti importanti casi giudiziari, spiega che «la menzogna raccontata agli inquirenti viene introiettata al punto che, con il passare del tempo, genera un falso convincimento che si trasforma in una realtà»
La cronaca nera degli ultimi tempi ha abituato a colpi di scena, veri o presunti. Prima del delitto di Garlasco è stato così per la strage di Erba, e prima ancora per l’omicidio di Serena Mollicone. Nuove voci si sono accavallate alle vecchie testimonianze, in alcuni casi l’esame del Dna ha suggerito nuove piste.
L’interrogativo – che è anche l’elemento che più angoscia e affascina – è se ci sia un innocente in galera o un colpevole a piede libero. Giuseppe Sartori, professore emerito di Neuropsicologia forense all’università di Padova e consulente in molti importanti casi giudiziari, spiega però quanto fallaci possano essere la mente umana e i suoi ricordi.
Professore, innocenti erroneamente condannati e colpevoli che si portano il segreto nella tomba. Sono due facce della stessa medaglia. Esiste un unico comune denominatore?
Per gli innocenti condannati erroneamente esistono molti studi e dati empirici, e la sintesi è che buona parte dei casi è riconducibile a false confessioni o a valutazioni errate delle dichiarazioni di un testimone. Per i colpevoli che l’hanno fatta franca, invece, la casistica è per forza di cose più ridotta. Il minimo comune denominatore, però, è il problema nella valutazione delle testimonianze.
La raccolta di testimonianze, però, è alla base del lavoro di chi indaga.
Dal punto di vista giuridico, la testimonianza è comunemente considerata una delle fonti di prova più importanti. Dal punto di vista scientifico invece rischia di essere molto fallace, soprattutto se non confortata da riscontri oggettivi. Gli studi scientifici hanno dimostrato in modo chiaro come il testimone reale sia lontano dal testimone ideale del processo penale.
Questo vale anche per le confessioni?
Assolutamente sì. La forza della pressione investigativa può portare un innocente ad autoaccusarsi falsamente. Esiste una casistica in questo senso in particolare con adolescenti, che confessano un reato mai commesso per proteggere un amico. Più complicato, invece, è che lo stesso avvenga con un colpevole.
Che cosa porta un colpevole alla confessione, invece?
La casistica di studio non è ampia, ma un esempio di scuola molto noto è quello dei Central Park Five. Nel 1989 cinque ragazzi sono stati ingiustamente condannati per tentato omicidio, stupro e rapina e sarebbero ancora in carcere se il vero autore non si fosse autoaccusato. Lo fece perché stava subendo la pressione esterna di un’altra indagine a suo carico: non aveva nulla da perdere e confessare anche quei reati non avrebbe cambiato nulla. Senza questo elemento esterno indipendente, però, mai sarebbe stato scoperto e mai avrebbe confessato.
Che cosa passa nella testa di un colpevole che non è stato scoperto?
Le confessioni tardive sono assai rare perché un colpevole che l’ha fatta franca si costruisce in testa spiegazioni che giustificano le sue azioni. La menzogna raccontata agli inquirenti viene introiettata al punto che, col passare del tempo, genera un falso convincimento che si trasforma in una realtà.
Come si può intervenire, dal punto di vista investigativo?
Di regola, una confessione o si ottiene subito oppure è difficile ottenerla tardivamente. Per smascherare un colpevole, la tecnica è quella delle cosiddette domande inaspettate. Il colpevole, infatti si costruisce un copione in testa, con le risposte a tutte le domande che si aspetta gli vengano fatte. La bravura dell’investigatore consiste nel porre le domande che non hanno una risposta preconfezionata, appunto inaspettata. Sono il metodo diagnostico migliore per identificare chi mente.
Può farmi un esempio?
Fingiamo che lei voglia nascondere la sua vera identità. Se io le chiedo “come ti chiami?”, lei risponderà il suo nome falso perché è una domanda prevedibile a cui si era già preparata. Se però le chiedo il suo segno zodiacale, lei saprà la sua data di nascita falsa ma probabilmente dovrà fermarsi a calcolarlo, invece saprebbe dire in automatico il suo vero segno zodiacale. È un esempio di domanda inaspettata, che però quando riguarda un caso giudiziario può essere difficile da individuare nelle prime fasi investigative, che sono le più delicate per quanto riguarda la raccolta delle testimonianze.
Un testimone, dicevamo, può scagionare o far condannare qualcuno.
Parlavamo dei falsi ricordi che diventano soggettivamente veri: succede anche ai testimoni, per questo gli investigatori devono essere molto attenti. Se inducono una risposta attraverso una domanda suggestiva, essa viene inglobata dal testimone e diventa per lui indistinguibile dalla verità. Se lei mi racconta di aver visto un uomo correre e io le chiedo se avesse la giacca blu o nera, lei automaticamente immagazzinerà il dato che l’uomo aveva una giacca, anche se non me lo ha mai detto. E lo ripeterà nelle fasi successive. Questo avviene perché la memoria del testimone è incidentale, cioè le nozioni non vengono volontariamente incamerate come fa uno studente. Se io assisto a una rapina, non resto lì a esplicitamente memorizzare le caratteristiche del volto del rapinatore.
Che effetti ha il tempo sui ricordi?
La regola di base è che ogni ricordo svanisce con il trascorrere del tempo, e questo vale sia per il colpevole che per l’innocente. Questo complica le cose, perché diventa impossibile stabilire se una persona non risponde a una domanda perché è colpevole oppure se, da innocente, non ricorda quello specifico fatto. Se io ora le chiedo dove è stata in vacanza l’anno scorso lei se lo ricorda, se le chiedo dove è stata nel 2014 probabilmente no.
Lo stesso effetto si ha anche per le emozioni?
Le emozioni in linea di massima si livellano e, tornando al ricordo che le ha provocate – un delitto per esempio – non vengono più rivissute con una intensità che gradualmente scema con l’andare del tempo.
Questo attenua il rimorso?
Come dicevo, gli studi sono molto pochi, ma in generale il rimorso non è frequente in chi commette reati e non viene condannato. È più facile che il colpevole cerchi delle scusanti alle proprie azioni e se ne convinca sempre di più.
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