Nella lista dei ministri per il governo Draghi, Marta Cartabia è quella con maggiore probabilità di ottenere un dicastero. Anzi, nel lasso di tempo tra la fine dell’ipotesi del Conte ter e le dichiarazioni del presidente della repubblica, Sergio Mattarella, era stato ipotizzato che l’incarico di formare il nuovo governo tecnico venisse assegnato proprio a lei.

Di Cartabia si conosce la biografia ufficiale, che parte dalle origini lombarde, racconta dei tre figli e di una carriera accademica veloce con la cattedra del costituzionalista Valerio Onida, culmina poi con la nomina giovanissima – appena quarantottenne – a giudice della Consulta e infine la sua elezione a prima donna presidente. Come tratto di colore si aggiunge la sua passione per la montagna, immortalata in uno scatto diffuso dai giornali con lei in cordata insieme al marito. Una quasi agiografia attentamente cesellata, che negli anni ha lasciato sullo sfondo la sua vicinanza a Comunione e liberazione, il movimento fondato da don Luigi Giussani e che proprio in Lombardia ha la sua culla; ma anche i suoi rapporti con il mondo economico cattolico, in particolare con la Compagnia di San Paolo, tra le più antiche fondazioni bancarie d’Europa.

Ora, nella sua veste di riserva pregiata della repubblica, la sua destinazione potrebbe essere il girone dantesco che è oggi ministero della Giustizia, ribollente delle tante questioni irrisolte lasciate aperte dall’ormai ex guardasigilli Alfonso Bonafede. La più impellente: la velocizzazione dei processi con due riforme, civile e penale, ferme al palo. La più spinosa: la riforma del Csm, avviluppata nel caso Palamara.

La militanza in Cl

Seppur portato progressivamente in secondo piano, il legame di Cartabia con Cl è ben individuabile e non si limita agli anni della formazione. Ospite tra le più assidue allo storico Meeting di Rimini, è intervenuta una decina di volte negli ultimi anni, l’ultima nel 2019. Il marito è stato tesoriere della Fraternità di Comunione e liberazione. Ha partecipato diverse volte all’assemblea annuale dei responsabili del movimento, a fine estate, e in quella sede nel 2010 ha tenuto un lungo intervento sulla sua esperienza americana, raccontando dell’incontro con un contesto culturale ultrasecolarizzato, lontano dalla sua sensibilità. Un passaggio sembra sintetizzare l’approccio “duttile” che poi la porterà a fare rapidi passi in avanti nella carriera: «Mi sono accorta subito che la contrapposizione polemica non mi avrebbe portata da nessuna parte e neppure la pura apologetica della posizione cattolica». C’è anche traccia di suoi interventi per ilsussidiario.net, il sito della Fondazione per la sussidiarietà presieduta dal professore della Bicocca (dove ha insegnato anche Cartabia) Giorgio Vittadini, considerato uno dei teorici della linea politico-economica del movimento cattolico.

Proprio in queste analisi, antecedenti alla sua nomina alla Consulta, esprimeva posizioni tutt’altro che sfumate di contrarietà all’eutanasia in merito al caso di Eluana Englaro e contro i matrimoni omosessuali, dopo la legge del 2011 dello stato di New York.

Accanto alla formazione nell’alveo del movimento cattolico, l’incontro determinante nella carriera accademica di Cartabia è quello con Joseph Weiler, giurista di fama mondiale della New York University e ospite fisso della kermesse riminese.

È con lui che si forma dopo la laurea, alla Law School dell’università del Michigan e poi come inaugural fellow allo Straus Institute for Advanced Study in Law and Justice della New York University, diretto da Weiler e considerato tra le sedi di formazione giuridica più importanti del mondo. È così che Cartabia si consacra come giurista transnazionale prima ancora che come accademica italiana. Non solo, però.

Weiler è un profondo amante dell’Italia e amico personale del presidente della repubblica Giorgio Napolitano. Seppur provenienti da formazioni diverse, i due si conoscono e si stimano, Weiler è stato presidente dell’European University Institute di Firenze e nel 2014 riceve proprio da Napolitano la cittadinanza onoraria. È sempre Weiler ad accogliere Napolitano per una “fireside chat” sul palco della New York University nel 2011, e pochi mesi dopo il presidente farà diventare Marta Cartabia la terza donna giudice costituzionale. Fra i due eventi c’è un passaggio di Napolitano, con accoglienza trionfale, al Meeting di Rimini: non proprio la sua platea storica di riferimento.

Il rapporto stretto con il Quirinale diventa una costante: una stretta confidenza lega la giudice anche a Mattarella, che in lei ha trovato un’interlocutrice privilegiata e i cui consigli avrebbero avuto un peso nella scelta dei successivi giudici costituzionali di nomina presidenziale.

Volutamente sfumato, infine, è anche il filo che lega Cartabia a Matteo Renzi. O meglio, viceversa. Il leader di Italia viva non ha mai lesinato richiami alle parole della presidente emerita della Consulta, citandola nei suoi libri e indicandola in tutte le sedi come la “non politica” più adatta a ruoli futuri, il Quirinale in testa.

Il feeling, però, è stato sapientemente silenziato: soprattutto in questa fase politica.

La Consulta

Nove mesi sembrano pochi, in nove anni di mandato. Eppure, i 270 giorni di presidenza Cartabia nel 2020 producono cambiamenti palpabili nell’antico palazzo della Consulta. Non tanto di linea giurisprudenziale sulle decisioni, nonostante una parte del mondo cattolico si aspettasse proprio orientamenti diversi su temi centrali, quanto di immagine. Chi l’ha vista muovere i primi passi nel 2011 racconta di una sua grande capacità di coltivare relazioni umane e la descrive come una persona ambiziosa e capace di interpretare al meglio ogni situazione. Tanto da aver ambito da subito e provato a ottenere il ruolo di presidente senza rispettare la prassi costituzionale della nomina del più anziano in servizio. Il suo curriculum, per quanto prestigioso sulla carta, non le ha fatto guadagnare la nomea di fine giurista quanto più quello di abile architetto di consenso. «Il diritto è civile, il fatto è penale, l’atto è commerciale, il nulla è costituzionale», è il perfido adagio in voga tra i corridoi della Consulta e Cartabia, esperta di diritto internazionale e human rights, verrebbe fatta rientrare nell’ultima categoria. Eppure, tutti le riconoscono una dote: la capacità oratoria fuori dal comune, che conquista l’uditorio con un respiro culturale che esce dai vicoli tortuosi del giuridichese.

È durante la sua presidenza che Cartabia lucida l’immagine della Corte costituzionale all’esterno: in continuità con il lavoro di valorizzazione iniziato nelle due presidenze precedenti, teorizza che i principi costituzionali sono «finestre aperte sulla realtà», valorizza il tour dei giudici nelle carceri iniziato dal suoi predecessore di cui esce poi un documentario, inventa il podcast della corte, in cui i giudici spiegano l’attività della Consulta. Entrano nel palazzo le telecamere di DiMartedì, di Giovanni Floris, cui concede una lunga intervista. Tutte iniziative pensate per promuovere l’istituzione – anche ben oltre il necessario, secondo l’interna corporis della Corte – con un ovvio riverbero personale. Proprio questa grande carica umana e buona dose di decisionismo l’hanno portata all’attenzione della stampa, anche grazie a una serie di favorevoli convergenze: la sua nomina a prima presidente donna, la sua capacità di smarcarsi dall’ambiente cattolico per abbracciare una dimensione più popolare e legata a temi laici, l’assenza di politici capaci di farle ombra.

Via Arenula

Se Cartabia è stata capace di costruire abilmente, tassello per tassello, il curriculum della tecnica perfetta per un governo del presidente (oggi insegna alla Bocconi, l’università presieduta dal tecnico per eccellenza Mario Monti), la sfida che potrebbe dover affrontare è ardua. Soprattutto perchè via Arenula è un mondo totalmente alieno all’ambiente accademico e istituzionale in cui la ex presidente si muove con più dimestichezza. Nei suoi trascorsi non c’è traccia di contatti né con la magistratura – tantomeno quella associata oggi così in subbuglio – né con quello dell’avvocatura. Nessun momento di confronto c’è stato nemmeno con la Scuola superiore della magistratura, che spesso è l’anello di congiunzione che lega i giudici costituzionali alla magistratura di carriera. Inoltre, nel suo profilo prettamente universitario manca un retroterra professionale legato alla dimensione dei tribunali e delle corti, il cui funzionamento oggi è condizionato non solo dalla pandemia ma anche dall’aspettativa europea di efficientamento e velocizzazione. Certo un background legato al mondo della giurisdizione non è un presupposto necessario ma – se davvero Cartabia approdasse a via Arenula – la pressione proprio sul fronte delle riforme di sistema (dal Csm ai riti sia del civile che del penale) sarebbe enorme e con minimo margine d’errore. Allora sarebbe necessario mettere in piedi una macchina e una squadra di prim’ordine per destreggiarsi tra le insidie: una capacità, questa, che Cartabia ha sempre dimostrato.

 

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