Il cosiddetto carcere ostativo torna a incombere sul governo, questa volta sotto forma di decisione della Corte di cassazione. La questione di costituzionalità, infatti, potrebbe riaprirsi proprio nel momento in cui, con la cattura del boss mafioso Matteo Messina Denaro, la premier Giorgia Meloni si è attribuita il merito di avergli garantito un “fine pena mai”.

La vicenda è complicata e intreccia orientamenti politici a vincoli giuridici. Il governo Meloni è intervenuto con un decreto legge a ottobre scorso, poi convertito alla fine dell’anno, che ha riformato la legge sul regime ostativo (disciplinato dal 4bis dell’ordinamento penitenziario) ovvero la preclusione assoluta ai benefici penitenziari per i detenuti per mafia e terrorismo che non abbiano utilmente collaborato con la giustizia.

La legge è stata approvata in tutta fretta con la decretazione d’urgenza perché incombeva il rischio della sentenza di incostituzionalità della Consulta, che già aveva accertato l’illegittimità costituzionale dell’automatismo ma aveva dato tempo al parlamento per approvare una legge organica in materia.

Ora che la nuova legge esiste, la Corte costituzionale non ha emesso la sentenza e ha rinviato gli atti ai giudici che avevano sollevato la questione di costituzionalità nel giugno 2020. Per questo la prima sezione penale della Cassazione oggi deciderà se, alla luce della nuova legge, la questione di costituzionalità nel caso concreto che deve decidere esiste ancora.

Cosa succede

La questione è giuridicamente molto complessa, tuttavia le strade per i giudici di piazza Cavour sono due e partono da un’analisi della nuova legge.

Il testo approvato dalla maggioranza elimina sì l’automatismo del “nessuna collaborazione-nessun beneficio”, tuttavia subordina la concessione dei benefici al detenuto ostativo che non collabora a una serie di condizioni molto stringenti. Come scrive il costituzionalista Andrea Pugiotto sul Riformista, «molteplici oneri di allegazione raggiungono le vette della probatio diabolica». Ovvero, la legge impone al detenuto di dimostrare l’indimostrabile. Inoltre, non prevede la valutazione di alcune condizioni oggettive come il fatto che la collaborazione chiesta al mafioso per ottenere il beneficio deve essere «utile alla giustizia», ma spesso è nei fatti impossibile, in quanto gli anni trascorsi in carcere sono troppi perché il detenuto possa avere informazioni ancora attuali. Inoltre, le nuove previsioni aumentano il limite temporale per chiedere la liberazione condizionale, portandolo a 30 anni di detenzione rispetto ai precedenti 26.

Questi rilievi fanno emergere come la legge di FdI possa essere considerata peggiorativa per il detenuto rispetto alla precedente. Tanto che i costituzionalisti si interrogano se, in alcuni casi, non si debba applicare ancora la disciplina precedente sulla base del principio del favor rei, ovvero dell’irretroattività della norma penale più sfavorevole.

Questo inevitabilmente inciderà nel giudizio dei giudici di Cassazione, che sono chiamati a riesaminare la richiesta concreta sul caso dell’ergastolano ostativo Salvatore Pezzino. Se valuteranno che effettivamente per lui sia più favorevole la legge precedente, non potranno far altro che risollevare di nuovo la questione di costituzionalità già giudicata dalla Consulta e sul vecchio testo.

L’altra ipotesi è che valutino la nuova legge comunque formalmente più favorevole a Pezzino, in quanto elimina l’automatismo che gli rendeva impossibile la richiesta di beneficio senza la collaborazione con la giustizia, anche se il suo ottenimento risulta comunque impossibile. In questo caso la Cassazione – che non giudica il merito - considererà superato il dubbio di costituzionalità sulla legge disporrà il rinvio del fascicolo al tribunale di sorveglianza, che a sua volta dovrà valutare nel merito la domanda di Pezzino per accedere ai benefici alla luce della nuova legge. Ed eventualmente riproporre alla Consulta una nuova questione di costituzionalità.

Le conseguenze

Insomma, la questione dell’ergastolo ostativo non si è chiusa con la nuova legge, che anzi rischia di finire immediatamente al vaglio dei giudici di palazzo della Consulta.

Del resto, a dimostrare che la nuova norma è stata costruita dal governo appositamente per evitare che i mafiosi al 4bis accedano effettivamente ai benefici penitenziari è stata la stessa premier Meloni. Con la cattura di Messina Denaro, infatti, ha detto che il suo primo provvedimento è stato «contro la mafia, ovvero la difesa del carcere ostativo, da sempre considerato il più grande problema dei mafiosi e della criminalità organizzata». Tradotto: la riforma è stata scritta per aggirare l’indicazione della Corte costituzionale, che considera il “fine pena mai” contrario alla Costituzione e alla funzione rieducativa della pena, e non per uniformarvisi.

Ora proprio questa scelta rischia di provocare una ripartenza dal via, con un nuovo vaglio costituzionale della legge sul 4bis.

Il detenuto

Al netto della teoria giuridica e delle questioni politiche, tuttavia, a rimanere dimenticato è il soggetto oggettivamente debole: il detenuto che ha promosso il giudizio. Soprattutto per lui il tempo passa, e in carcere lo fa più lentamente che altrove.

Salvatore Pezzino è detenuto per mafia e omicidio e ha trascorso due terzi della sua vita in carcere, dove è entrato nel 1984, a 22 anni. In cella ha scontato 38 anni, intervallati solo da una finestra di quattro anni di semilibertà. Nel 1988 è stato condannato a trent’anni di carcere, nel 1996 ha ottenuto la semilibertà e ci è rimasto fino al 2000, quando è stato arrestato di nuovo per reati di tipo mafioso in regime di 4bis. All’origine di tutto, rimane sempre lo stesso interrogativo giuridico e politico: quando lo stato considera che una pena è stata scontata a sufficienza e se è ancora accettabile il “mai” come risposta.

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