Ex procuratore di Palermo e uno dei principali protagonisti della lotta al terrorismo degli anni Settanta e alla mafia degli anni Novanta, Gian Carlo Caselli è tra i magistrati che più  hanno segnato la storia giudiziaria italiana. Nei suoi anni palermitani, infatti, ottenne importanti risultati  come l’arresto del boss Leoluca Bagarella. Inoltre portò a processo con l’accusa di associazione mafiosa il leader democristiano Giulio Andreotti.

Oggi in pensione ma ancora attento osservatore di ciò che accade dentro e fuori la magistratura, si esprime sulla sentenza d’appello che ha escluso l’ipotesi della trattativa Stato-mafia e prende posizione anche sulle riforme della giustizia penale in corso.

Dottor Caselli, come ha accolto la sentenza d’appello sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia?

Non faccio mai previsioni. Potrei cavarmela con una battutaccia che da sempre circola fra i giuristi, la traduzione maccheronica del detto tot capita tot sententiae come: tutto capita nelle sentenze. Ma non è materia per facili battute. Proprio per questo le rispondo con l’avvertenza che chiude il capitolo “Trattativa” di un libro scritto, quando ancora era in corso l’appello, insieme a Guido Lo Forte (Lo stato illegale, Laterza, ndr): resta fermo, in attesa del giudizio di secondo grado sulla responsabilità penale delle persone coinvolte, che la sentenza di primo grado ritiene dimostrati vari fatti storici importanti. Un’avvertenza da ricordare anche oggi, in attesa della motivazione.

Quindi dalle motivazioni si capirà su cosa è caduta l’ipotesi accusatoria.

La mia non è una  clausola di stile ma un principio garantista, ovviamente non del garantismo à la carte. Posto che il materiale probatorio è strutturalmente opinabile, sorge appunto la necessità della motivazione, fatta apposta per consentire alle parti di contestarla e all'opinione pubblica di controllarne la coerenza e l'attendibilità.

Questo in tutti i processi, figuriamoci in un processo di eccezionale complessità e delicatezza come senza alcun dubbio è quello sulla “trattativa”. Dove invece c’è stato un orgiastico sabba di insulti, dileggi, imprecazioni, scomuniche, anatemi, etichette infamanti appioppate con disinvoltura a chiunque osasse riproporre le tesi dell’accusa con osservazioni critiche sulla sentenza d’appello.

L’esito – ancora non definitivo – di questo processo cambierà o influenzerà il modo in cui si conducono le indagini per mafia?

Le indagini e i processi per mafia, sul versante dei  rapporti con i “colletti bianchi”,  hanno registrato varie fasi. Un tempo prevaleva la “grande scaltrezza”, come diceva Peppino Di Lello, nel senso di “riconoscere in teoria la pericolosità della mafia per le sue connessioni col potere politico ed economico e – nel momento di passare alle prassi giudiziarie – nel perseguire costantemente la sola ala militare dell’alleanza, tenendo fuori dal loro campo d’azione l’altro corno del problema”.

Il pool di Giovanni Falcone ha invece cominciato ad inquisire anche personaggi come Vito Ciancimino e Nino Salvo, oltre ad impiantare il capolavoro del maxiprocesso. Dopo le stragi del 1992, la magistratura palermitana, consapevole che il sacrificio di Falcone e Borsellino e di quanti erano morti con loro imponeva ancor più di fare il proprio dovere fino in fondo, ha rifiutato ogni scaltrezza per non macchiarsi di ver­gogna.

Ed ecco  – oltre ai processi contro Salvatore Riina e soci – vari processi contro imputati eccellenti: da Giulio Andreotti a Marcello Dell’Utri, per ricordare soltanto due casi. E' seguita una stagione di "normalizzazione" ben documentata in un libro di Lodato e Travaglio significativamente intitolato Gli intoccabili.

Il passato insegna che si alternano vari livelli di intensità della lotta alla mafia?

Nella storia giudiziaria antimafia si registra come una sorta di alti e bassi, secondo un copione che risale addirittura al processo Notarbartolo, uomo integerrimo ucciso nel 1893  dalla mafia su mandato dell'onorevole Raffaele Palizzolo.

Costui, prima condannato a trent’anni, venne poi assolto e accolto a  Palermo da trionfatore con  un ciclo di festeggiamenti che durarono parecchi giorni. In ogni caso, io credo che ad influire sui processi e sull'antimafia in generale siano piuttosto il clima politico-culturale delle varie stagioni.

Non a caso quando la mafia "non esisteva", nel senso che fior di notabili ne negavano ostentatamente e in pubblico l'esistenza stessa, di processi ce n'erano pochi e di condanne nessuna.

Quindi ora, secondo lei, non ci sarà tanto un cambio nel metodo d’indagine ma una fase di “bassa” nella lotta alla mafia?

L’impegno delle forze dell’ordine e della magistratura è ormai consolidato. Occorre anche la volontà precisa di affrontare e risolvere una volta per sempre il nodo delle “relazioni esterne” delle mafie. Nodo di com­piacenze, collusioni, complicità e coperture che sono il codice genetico di quello che Carlo Alberto Dalla Chiesa chiamava il poli-partito della mafia, per indicare la stretta compenetrazione fra potere criminale e pezzi del mondo legale, oggi soprattutto economici.  

Il clamore mediatico del processo trattativa ha polarizzato il dibattito pubblico, ma anche spinto carriere sia in politica che in magistratura. Era inevitabile che fosse così?

Immagino che la domanda si riferisca ad Antonio Ingroia e Nino Di Matteo dei quali  - se non si è prevenuti o peggio -  è impossibile disconoscere le qualità professionali e l’impegno coraggioso sempre dimostrati. Per cui le loro carriere, semmai, sono state spinte innanzitutto da queste doti.

Quanto al versante politico, se parliamo di Ingroia dovremmo parlare anche di Peppino Di Lello, Giuseppe Ajala, Pietro Grasso e non solo, ma con una differenza. Ingroia, per altro con pochissima fortuna, ha creato un suo partito, mentre tutti gli altri sono saliti su questo o quel carro partitico già avviato. Per Ingroia un segno di indipendenza. O no? In ogni caso c’è il rovescio della medaglia.

Ovvero magistrati penalizzati dalle inchieste condotte?

Mi è toccato di sperimentarlo direttamente, quando fui privato del diritto di concorrere al ruolo di procuratore nazionale antimafia nel 2005 in quanto “indegno”. Avvenne mediante una legge contra personam poi dichiarata incostituzionale, con cui il potere politico, mentre era in pieno svolgimento il concorso pubblico, ha di fatto espropriato al Csm la nomina del capo di un ufficio giudiziario, calpestando il principio costituzionale della separazione dei poteri. Una palese violazione di ogni regola, candidamente e pubblicamente “spiegata” come una ritorsione per il processo Andreotti.

Oggi siamo davanti a una stagione inedita di riforme della giustizia. Parto da quella macroscopica del ddl penale: come la giudica, soprattutto con riguardo alla modifica della prescrizione?

La riforma Bonafede aveva allineato il nostro sistema a quello degli altri paesi civili, introducendo un blocco definitivo della prescrizione con la sentenza di primo grado dove prima c’erano solo sospensioni temporanee.

L’obiettivo era anche cancellare uno scempio costituzionale: la coesistenza di due processi distinti a seconda del censo e dello status sociale degli indagati, diviso tra poveracci processati velocemente e ricchi che possono pagare buoni avvocati e consulenti che possono contare sulla prescrizione. La riforma Bonafede ha provato ad eliminare questo sfregio.

Eppure un problema di lunghezza dei processi esiste: è giustizia quella che arriva dopo decine d’anni dai fatti commessi? Senza prescrizione, si rischia il fine processo mai.

Non condivido queste accuse catastrofiste, sintetizzabili nella tesi che il blocco della prescrizione creerebbe l’inaccettabile nuova categoria dell’imputato a vita.

Un’ipotesi tutta da verificare e quanto meno esagerata perché si basa su un presupposto assurdo: che dopo la sentenza di primo grado i palazzi di giustizia cessino del tutto di funzionare.

La ministra Cartabia è intervenuta introducendo la cosiddetta prescrizione processuale, che genera l’effetto dell’improcedibilità in appello e Cassazione dei processi che hanno superato una certa durata.

La riforma Cartabia, pur dichiarando di voler innovare, ha confermato il blocco della prescrizione con la  sentenza di primo grado, per poi pentirsene e cancellarlo: se l’appello non si conclude entro due anni, tutto il processo va in fumo come avveniva con la prescrizione, che però adesso si chiama “improcedibilità”.

Con varchi offerti all’impunità dei colpevoli, mentre l’innocente può perdere ogni opportunità di essere riconosciuto tale e alle vittime non resta che sentirsi dire “abbiamo scherzato”. E con il persistere del nefasto incentivo a tirala per le lunghe.

Il paradosso è che di una questione tecnica si è voluto fare un problema soprattutto di scontro politico, come rivela indirettamente – con sincero pragmatismo –  la  relazione Lattanzi, là dove afferma che  «dal punto di vista tecnico non vi sono ragioni che rendono urgente”  rivedere  la Bonafede, posto che i suoi effetti “si produrranno  a partire dal 2025 per le contravvenzioni e dal  2027  per i delitti».

E per favore non si dica che lo voleva l’Europa, perché l’erogazione dei fondi  è subordinata allo sveltimento del processo al  netto della disciplina della prescrizione, per altro promossa dal Greco  (Gruppo europeo contro la corruzione)  nella versione tanto vituperata dai “garantisti” nostrani.

In corso in parlamento c’è la discussione sulla riforma del carcere ostativo, il cosiddetto fine pena mai senza possibilità di miglioramenti della condizione carceraria di alcune categorie di detenuti se non dopo il pentimento, come sollecitato dalla Consulta. Ritiene che l’ammorbidimento del 4bis sia un errore?

La Consulta con l’ordinanza n. 97/2021 da un lato ha dichiarato incostituzionale l’ergastolo ostativo, ma nello stesso tempo ha stabilito che la  pronunzia non avrà effetti  immediati, perché entro un anno il Legislatore dovrà riscrivere la legge.

La Consulta per altro  spiega  il differimento con il rischio di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata. Specificando poi che il legislatore dovrà intervenire tenendo conto «sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi». 

Il legislatore, riscrivendo la norma, non potrà non trarne ogni logica e responsabile conseguenza. C’è quindi ancora spazio e speranza perché le picconate contro l’antimafia non lascino solo macerie, sulle quali sarebbero unicamente i mafiosi a ballare.

Il 4 bis è nato come strumento emergenziale all’indomani delle stragi del 1992, non è cambiato nulla da allora?

La normativa antimafia è costituita da un “pacchetto” organico: legge sui pentiti, 41 bis, 4 bis. Questo “pacchetto” ha funzionato e funziona. Grazie ad esso siamo riusciti ad incrinare il mito dell’invulnerabilità della mafia.

A chi dice che l’emergenza è finita e che si deve cambiare, rispondo che mi sembra di leggere Alice nel Paese delle meraviglie. Tanto più in questi tempi di pandemia, con le mafie pronte, con il loro dna di sciacalli e avvoltoi, ad approfittare delle sofferenze e difficoltà economiche purtroppo diffuse.

Basta leggere la recentissima relazione della Direzione investigativa antimafia per convincersene oltre ogni dubbio.

In parlamento si discute anche di un disegno di legge che recepisce una direttiva Ue sulla presunzione di innocenza, che regola e formalizza le comunicazioni tra la stampa e i magistrati, a garanzia degli imputati. Lo ritiene vessatorio nei confronti dei pm?

La penso esattamente come Vladimiro Zagrebelsky, secondo cui lo schema di decreto legislativo su cui le camere esprimeranno un parere obbligatorio contiene «una riforma irragionevole nella sua assolutezza e nella pretesa di limitare le forme di comunicazione… che va oltre la necessità di rispettare la presunzione di innocenza, investendo e limitando tutta la informazione sui procedimenti penali».

Volendo semplificare al limite della banalizzazione, vien da dire che il rattoppo è peggio, ben beggio, del buco! A meno di considerare il diritto di informare e di essere informati non tutelabile come interesse pubblico e costituzionale primario.

Dopo il caso Palamara, i veleni alla procura di Milano e il caos al Csm, la magistratura italiana sta implodendo oppure è sotto assedio esterno?

Quel che è certo è che giustizia e legalità fanno sempre più fatica ad assolvere ai propri compiti. Le storture sono tante: un processo farraginoso e incomprensibile, con costi e tempi insostenibili; episodi di diritti calpestati e di regole violate proprio da chi dovrebbe farle rispettare; scontri interni alla magistratura; vicende che inducono i media a mostrare la giustizia come un campo di battaglia dove si consumano vendette politiche.

E poi il caso Palamara con la sua vischiosa rete di relazioni torbide,  che ha spinto la magistratura, già su un piano inclinato, verso una caduta sempre più rovinosa di credibilità e fiducia.

Come se ne esce?

Occorre che i magistrati scaccino i mercanti dal tempio e nel tempo stesso sono necessarie robuste riforme, sia del Csm che dell’ordinamento giudiziario. Ma riforme vere, non pretesti per ottenere finalmente il risultato di costringere la magistratura, soprattutto i pm, in un angolo: come vogliono da sempre tutti coloro a cui la legalità dà l’orticaria, anche se strillano il contrario. Attenzione, invece, alle pseudo riforme come quella della separazione delle carriere, perché potrebbero nuocere alle   persone di cui oggi c’è più bisogno: quelle che non ci stanno a convivere né con la mafia, né con la corruzione.

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