Il decreto Sicurezza è stato convertito, con la fiducia, alla Camera e ora passa al Senato per l’ultimo via libera. Tuttavia, i suoi effetti sono in vigore già dal 12 aprile quando, con una piroetta, il testo è trasmigrato da un disegno di legge a un decreto legge. E’ un decreto figlio del «populismo penale», secondo Gian Luigi Gatta, professore alla Statale di Milano e presidente dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale, che si è mobilitata per organizzare in 10 atenei un ciclo di convegni per mettere in luce le storture del testo.

Professore, quanto pesa la questione di metodo nell’approvazione del decreto?

Viene prima anche del merito, perché è stato sfilato un disegno di legge che era già all’esame del parlamento da oltre un anno. Si risponderà che è sempre il parlamento che lo converte, ma con la differenza che con il decreto legge i nuovi precetti penali sono entrati subito in vigore. Il testo è addirittura stato pubblicato in Gazzetta ufficiale alle 10 di sera, due ore prima dell’entrata in vigore, con buona pace della conoscibilità di reati e pene, che è un presupposto costituzionale. Non solo: si insegna al secondo anno di giurisprudenza che la decretazione d’urgenza non andrebbe usata in materia penale: se un decreto poi non venisse convertito in legge, potrebbero residuare effetti irreversibili, come in caso di arresto.

Non è il caso di quello in esame, su cui il governo ha messo la fiducia.

Questo non cambia il fatto che il decreto difetti della necessità e dell’urgenza che sono alla base dell’utilizzo di questo strumento. Come possono esserci, se il testo prima era un disegno di legge d’iniziativa governativa all’esame delle camere da oltre un anno?

Che effetti può provocare, la scelta di questo iter così farraginoso?

Vedo profili di incostituzionalità, che potranno essere sollevati davanti alla Consulta da qualsiasi giudice. C’è un evidente abuso della decretazione d’urgenza che crea un pericoloso precedente, perché mette in discussione il principio della riserva di legge parlamentare. Può sembrare pura teoria, ma le conseguenze a livello istituzionale sono molto gravi.

Una dichiarazione di incostituzionalità basterebbe?

No, nel senso che la questione di legittimità costituzionale si può sollevare su singoli profili del decreto Sicurezza, non sul testo nel suo insieme. Tuttavia è certo che questioni saranno sollevate e anche molto presto, perché i nuovi reati già vengono contestati. Va detto sin da subito però: sarebbe davvero pretestuoso, quando ciò accadrà, bollare come eversivo il magistrato che attiverà il procedimento. Per come questo testo è stato scritto, è fisiologico che sorgano dubbi di compatibilità con la Carta.

Voi professori vi siete mobilitati e lo hanno fatto anche i penalisti. Non si rischia lo scontro politico?

Le nostre ragioni sono culturali e tecniche: con questo decreto sicurezza si sono introdotti nottetempo 14 reati e 9 aggravanti, andando a punire in senso unidirezionale condotte odiose - per esempio i furti in metropolitana o l’occupazione delle case – ma espressione di criminalità comune. Ma ci sono emergenze ben più fondate. Le faccio un esempio: secondo le ultime stime, il 60 per cento degli italiani non paga le tasse: servirebbe un decreto evasori?

Cosa vuol dire con questa iperbole?

Che ormai si usa lo strumento penale per catturare il consenso popolare, facendo leva sul fatto che i reati comuni sono sovrarappresentati dai media, molto meno dell’evasione fiscale o dei reati economici. Si tratta di populismo a costo zero, perché non richiede investimenti ma permette di mostrare agli elettori il volto severo del legislatore. Un legislatore che però è bene attento a non usare la stessa tecnica anche contro gli evasori, perché questo gli farebbe perdere voti e non guadagnarne. E poi sa cosa? Si promettono risultati di legge e ordine che il penale non può far ottenere, perché più reati non producono più sicurezza, come scriveva già Cesare Beccaria. Servirebbero interventi e investimenti che intaccano le cause reali di questi reati comuni, frutto di disagio sociale, e aumentano la sicurezza, come nel caso delle telecamere.

Davvero questa modalità di intervento è a costo zero?

Dal punto di vista economico sì. Il vero costo, però, è quello di affollare la giustizia penale, rallentare i processi e incidere negativamente sulle condizioni delle carceri, che sono già in emergenza tra sovraffollamento e suicidi.

Alcuni dei nuovi reati riguardano proprio il carcere, come quello di resistenza passiva.

Il problema di questo provvedimento è lo squilibrio, con tutela tutta in favore delle forze dell’ordine, generando così tensioni. Si interviene minacciando pene per rivolta e resistenza passiva e si prevede che le spese processuali per le forze dell’ordine vengano pagate dallo Stato, ma non si fa nulla per il sovraffollamento. Il rischio è che le carceri diventino delle polveriere.

Eppure Nordio si definisce un garantista.

Mi sembra che si usi una mano pesante con i soggetti più deboli, colpendo con pene più severe la criminalità da strada e contestualmente anche le forme di manifestazione del dissenso. Quando invece si tratta dei cosiddetti colletti bianchi, quindi della criminalità che interessa le classi sociali più alte, la mano si alleggerisce. Mi sembra che nella maggioranza convivano due anime e quella garantista si svegli solo quando da tutelare ci sono soggetti forti.

Un esempio?

Il dl Sicurezza prevede il daspo urbano per reati commessi nelle stazioni, che si applica anche a chi è stato solo denunciato. E’ un provvedimento severo, perché incide sulla libertà di circolazione e può scattare anche per un semplice alterco con la polizia ferroviaria che poi sporge denuncia. La stessa maggioranza, però, critica la legge Severino nella parte in cui prevede l’incandidabilità per i condannati in primo grado. Due pesi e due misure, garantismo a corrente alternata.

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