Nei video pubblicati da Domani sui pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere si vedono gli agenti della polizia penitenziaria che picchiano i detenuti. Sono bardati con divise e caschi: non sono identificabili. Tanto che, ora che sono in corso le indagini, alcuni di coloro che erano presenti risultano ancora sconosciuti. Gli altri invece sono stati identificati perché il viso era stato inquadrato dalle telecamere di sorveglianza, oppure grazie al riconoscimento degli stessi detenuti.

La soluzione sarebbe quella adottata in buona parte dei paesi europei e occidentali: un codice identificativo univoco su divise e caschi delle forze dell’ordine, che però è ancora un tabù per l’ordinamento italiano.

Secondo la normativa, i membri delle forze dell’ordine in servizio non hanno l’obbligo di identificarsi: la divisa parla per loro e le generalità dei singoli non possono essere chieste dal cittadino. L’unica eccezione è quando operano in borghese: in quel caso devono avere il tesserino di riconoscimento e sono tenuti a identificarsi, nel caso di richiesta espressa da parte di chi fermano.

Tuttavia, questa ampia zona grigia dell’inidentificabilità degli agenti è stato un tema centrale nel dibattito pubblico, in concomitanza con eventi tragici di scontri che hanno visto coinvolte le forze dell’ordine. Vent’anni fa il tema riguardò le violenze durante il G8 di Genova, sia durante le manifestazioni che alla scuola Diaz: tutt’oggi, molti degli autori di quei pestaggi non sono stati identificati. Nel 2005 il tifoso del Brescia Paolo Scaroni è stato vittima di una violenta aggressione da parte della polizia, è rimasto in coma per due mesi ed è rimasto invalido: gli aggressori non sono mai stati identificati. Situazione analoga ha riguardato anche gli sgomberi degli attivisti No Tav a Venaus, in Piemonte, avvenuti nel 2005, 2010 e 2011.

Anche in questi casi, i video che hanno documentato quanto accaduto ha permesso l’apertura di numerose inchieste da parte della procura di Torino con riguardo al comportamento degli agenti, ma tutte a carico di ignoti. Oggi lo stesso continua ad accadere a Santa Maria Capua Vetere.

I tentativi a vuoto

In Europa, solo Austria, Cipro, Italia, Lussemburgo e Olanda non prevedono l’identificabilità delle forze dell’ordine. Eppure, la raccomandazione europea che prevede l’obbligatorietà del numero identificativo per gli agenti risale al 2001 e nel 2012 la risoluzione 2011/2069 del Parlamento europeo esortava gli stati a «garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo».

Nel 2016, il Consiglio sui diritti umani delle Nazioni unite si è espresso a proposito della gestione delle manifestazioni pubbliche da parte degli stati, raccomandando che «i funzionari delle forze di polizia siano chiaramente e individualmente identificabili, ad esempio esponendo una targhetta col nome o con un numero».

Eppure, nonostante l’esempio della maggior parte dei paesi europei e le sollecitazioni internazionali, tutti i tentativi di approvare gli identificativi sono fallite. Nel 2001, in seguito alle violenze di Genova, ci aveva provato la deputata di Rifondazione comunista Elettra Deiana, nel 2002 al Senato il verde Francesco Martone, nel 2008 invece il radicale Maurizio Turco.

Montaggio di Carmen Baffi

Nel 2014 sono state depositate in Senato tre proposte di legge, una di Marco Scibona del Movimento 5 stelle, una di Luigi Manconi del Pd e una di Peppe De Cristofaro di Sel, adottate come testo base per la discussione in commissione Affari costituzionali. La proposta prevedeva che casco e divise dovessero avere un numero riconoscibile fino a 15 metri di distanza. La discussione si era avviata, ma tutto si è arenato dopo qualche mese in commissione.

Nel 2019 c’è stato un altro tentativo con due diverse proposte di legge che prevedevano il codice identificativo, presentate alla Camera dalla dem Giuditta Pini (che chiedeva anche l’introduzione della body-cam addosso agli agenti) e dal radicale Riccardo Magi. Entrambe sono rimaste bloccate e giacciono nei cassetti della Camera.

L’ultimo tentativo in ordine di tempo è quello del 2020 ed era contenuto in un emendamento a un decreto in materia di immigrazione: la proposta, firmata da Nicola Fratoianni, Matteo Orfini, Erasmo Palazzotto, Fuasto Raciti, Giuditta Pini, Luca Rizzo Nervo e Chiara Gribaudo prevedeva che il personale delle forze di polizia indossasse su uniforme e casco una sigla univoca identificativa. L’emendamento è stato ritenuto inammissibile ma ha sollevato dibattito e polemiche.

Gli oppositori

Contro ogni tentativo di introdurre l’identificazione delle forze dell’ordine si sono sempre espressi i sindacati. Dopo la proposta del 2020, infatti, il segretario generale Fsp Polizia di stato Valter Mazzetti ha dichiarato che «viene da chiedersi come si possa calpestare in maniera così brutale e arrogante il senso del dovere e di responsabilità che ancora porta migliaia di operatori per strada» e che «prima di parlare di codici alfanumerici per gli agenti, si pensi agli identificativi per i delinquenti».

Anche nel centrodestra le posizioni sono sempre state contrarie. Nel 2019 i deputati di Forza Italia Maurizio Gasparri e Elio Vito hanno partecipato alla manifestazione dei sindacati Sap, Sappe e Conapo davanti a Montecitorio e hanno dichiarato che «ci sono questioni importanti come i codici identificativi e il reato di tortura, voluti dalle sinistre e contro i quali ci siamo battuti perché sarebbero stati un pericoloso strumento in mano ai teppisti di piazza». Sulla stessa linea è anche Matteo Salvini, che nel 2018 dichiarava che «Il mio obiettivo è non mettere il numero sui caschi dei poliziotti, che sono già abbastanza facilmente bersagli dei delinquenti anche senza il numero in testa».

 

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