C’era, in lui, qualcosa di ottocentesco. Forse erano i suoi modi, da vero gentiluomo d’altri tempi. O la suggestione esercitata dalla sua omonimia con il grande Maestro della sociologia criminale (che al suo pari aveva avuto - me lo raccontò in un giorno, come tanti, in cui era in vena di aneddoti - una figlia di nome Camilla). O era il suo aspetto fisico, quel volto in cui campeggiava una barba - fattasi, via via, bianca negli anni - da vero uomo “risorgimentale”, quasi da padre della Patria. Oppure l’integrità della sua persona, che richiamava alla mente quella “destra storica” - dei D’Azeglio, dei Cavour, dei Minghetti - che fu la classe dirigente destinata ad unificare la nostra Nazione.

Eppure, Enrico Ferri era uomo modernissimo. Tanto da essere stato tra i pionieri, in Italia, dell’informatica giuridica, che insegnò per anni, quale professore (e mentore) di tanti giovani, molti dei quali sarebbero poi divenuti suoi colleghi magistrati. Fu inoltre uno dei primi a comprendere, tra gli appartenenti all’ordine giudiziario, la necessità di uscire da quella che, un tempo, veniva definita “la torre d’avorio”. Facendosi, così, instancabile animatore di iniziative culturali non confinate al solo settore del diritto, trasformando Pontremoli - sede del suo primo incarico in magistratura e luogo in cui radicò, con la Signora Lucia, la sua splendida famiglia - nel centro di un’attività convegnistica di altissimo livello.      

Allievo, in gioventù, di Giorgio La Pira (fu tra le prime cose a raccontarmi di sé - quando lo conobbi, quasi un quarto di secolo fa - sapendomi figlio di uno studioso di diritto romano), aveva assorbito da tale esperienza, oltre all’insegnamento giuridico, una concezione profondamente umanistica del ruolo spettante agli intellettuali nella società. Saldamente credente, ma di ispirazione - oserei dire - “maritainiana”, ebbe sempre netta, pertanto, la necessità di distinguere i valori che professava dalla funzione che svolgeva.

Indimenticabile affabulatore, ti conquistava - quasi ti ipnotizzava - con quella sua voce calda e suadente (talvolta mi faceva pensare ad un grande attore teatrale) e con un linguaggio, ad un tempo, semplice, limpido eppure assai forbito. Aveva, poi, la capacità - rarissima - di far sentire ognuno come il suo interlocutore privilegiato. Ma forse era davvero così, perché la sua travolgente carica umana gli permetteva di entrare in empatia con chiunque, dagli spiriti semplici sino alle persone più intellettualmente sofisticate.

Inutile, qui, rievocare il suo cursus honorum.

Mi piace, però, ricordare quanto affezionato fosse alla sua “cara Puntremal” (così si intitolava il volumetto, che conservo ancora, con cui riepilogava i risultati dell’amministrazione municipale da lui guidata, presentandosi al rinnovato giudizio degli elettori), quale testimonianza del legame che lo univa, quasi visceralmente, alla sua comunità di elezione. Mi confidò, in quell’occasione - era impegnato in una doppia campagna elettorale, per il rinnovo dell’incarico sia di Sindaco che di parlamentare europeo - quanto tenesse molto più al primo, che non invece al secondo. E chiunque lo abbia conosciuto, e ne ricorda l’attaccamento alla cittadina lunigianese, sa che non si trattava della civetteria di un uomo di grande successo. Perché Enrico Ferri ha raggiunto molti traguardi: giovanissimo componente del Csm, Presidente e Segretario Generale dell’Associazione Nazionale Magistrati (oltre che leader storico di Magistratura Indipendente, che guidò negli anni difficili che seguirono allo scandalo della P2, che aveva coinvolto parte della sua dirigenza), nonché Ministro dei Lavori Pubblici, europarlamentare e finanche segretario di un partito politico. Aveva, però, il piccolo rimpianto - non lo confessava, ma lo si intuiva - di non essere mai stato eletto al Parlamento nazionale. A conferma che ogni esistenza, anche la più operosa, intensa e gratificante, non è mai completamente appagante, perché l’incompiutezza è intrinseca - almeno in questo nostro “transito” terreno - alla condizione umana.

Ieri, il giorno 17 dicembre (era superstizioso Enrico, ma quel numero - diceva - gli portava fortuna, essendo nato proprio di 17, come anche suo figlio Cosimo), è mancato all’affetto dei suoi cari.

Ma per chi, familiare o amico, gli ha voluto bene e oggi lo piange, resta sempre la medesima consolazione, alla quale aggrapparsi nella cerimonia degli addii: “ciò che hai amato rimane, il resto è scoria. Ciò che hai amato non verrà mai strappato da te. Ciò che tu hai amato è il tuo vero retaggio”.

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