Ha destato grande scalpore la decisione dell’Ungheria di ritirarsi dallo statuto di Roma, istitutivo della Corte penale internazionale (Cpi). L’ha annunciata nelle scorse settimane il premier, Viktor Orbán, nel corso di una conferenza stampa, poco dopo l’arrivo a Budapest del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, per una visita di stato.

Secondo Orbán, la Corte ha perso la sua imparzialità ed è diventata un tribunale politico. Il riferimento è ai mandati di arresto emessi dalla Cpi, nel novembre scorso, nei riguardi di Netanyahu e dell’ex ministro della Difesa israeliano Joav Galant, per crimini di guerra e crimini contro l’umanità nel conflitto con Hamas (la Corte penale internazionale ha chiesto all’Ungheria di spiegare perché non abbia applicato questi mandati di arresto ndr).

Ma come si attua il ritiro dallo statuto di Roma, e quali conseguenze comporta la scelta di Orbán?

La Corte penale internazionale

Innanzitutto, va ricordato che la Cpi è un tribunale, con sede all’Aia, chiamato a giudicare i responsabili di crimini efferati riguardanti la comunità internazionale, come il genocidio, i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e il crimine di aggressione.

Lo statuto della Corte, stipulato a Roma nel 1998 ed entrato in vigore nel 2002, disciplina in particolare le finalità, la struttura e il funzionamento della Cpi, nonché i rapporti tra la Corte e gli stati.

Secondo quanto previsto dal testo (articolo 127), uno stato parte può notificare al Segretario generale delle Nazioni unite il recesso dallo statuto. Il recesso diviene effettivo un anno dopo la data della notifica, a meno che non sia indicata una data successiva. Prima della notifica, serve una decisione del oarlamento nazionale. L’Ungheria ha già presentato la relativa proposta di legge, come ha reso noto il portavoce del governo, e il voto finale è atteso a maggio.

Il recesso di uno stato non lo esonera dagli obblighi posti a suo carico dallo statuto, in primis quello di cooperazione con la Corte per le indagini avviate prima della data in cui il recesso è divenuto effettivo. Dunque, nonostante l’annunciato ritiro, Orbán è ancora obbligato a collaborare con i giudici.

Il governo ungherese, invece, sostiene di non avere alcun vincolo, motivo per cui non ha dato esecuzione al mandato d’arresto di Netanyahu. Sebbene abbia firmato lo statuto di Roma (nel 1999) e lo abbia ratificato (2001), il paese non ha adeguato l’ordinamento interno alle disposizioni dello statuto stesso.

Ovviamente, ciò non impedirebbe di cooperare comunque con la Corte mediante i mezzi a sua disposizione. Ma Orbán sa che per la violazione dello statuto, sostanzialmente, non sono previste vere e proprie sanzioni, bensì ripercussioni diplomatiche e politiche. La Cpi può, infatti, segnalare la violazione all’Assemblea degli stati parte o al Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Il ritiro dell’Ungheria

Finora solo due stati, Burundi e Filippine, sono usciti dal sistema di giustizia internazionale assicurato dalla Corte. Nel 2016 il ritiro era stato annunciato dal Sudafrica, che poi nel 2017 l’aveva revocato. La decisione di Orbán rappresenta un grave colpo inferto al sistema della giustizia internazionale, specie perché l’Ungheria è l’unico tra gli stati membri dell’Unione europea ad aver annunciato il ritiro dallo statuto di Roma, e l’Ue ha anche sottoscritto accordi di cooperazione con la Corte.

L’istituzione della Cpi ha rappresentato il formale riconoscimento di una stabile “giurisdizione universale”, che fino a quel momento si era scontrata con la rivendicazione, da parte degli stati, della sovranità nazionale.

Ora, in epoca di sovranismi, il sistema vacilla sotto i colpi non solo di chi annuncia l’uscita dallo statuto di Roma, come l’Ungheria; ma anche di chi non ne esegue i mandati, pur essendone vincolato, o non si dota degli strumenti necessari per assolvere agli obblighi derivanti dallo statuto.

Il riferimento è al governo italiano che, dopo l’arresto di Osama Njeem Almasri, l’ha rimandato in Libia con un volo di stato. Per questo motivo la Corte ha aperto un procedimento per «mancata osservanza di una richiesta di cooperazione». Ma l’Italia ha anche bloccato il Codice dei crimini internazionali, predisposto dalla ministra Marta Cartabia, finalizzato a dare compiuto adempimento agli obblighi derivanti dallo statuto di Roma, con l’introduzione nell’ordinamento dei crimini di competenza della Corte. «La Cpi è al centro dell’impegno globale per la responsabilità e, per mantenere la sua forza, è imperativo che la comunità internazionale la sostenga senza riserve. La giustizia richiede la nostra unità», ha detto la Corte riguardo all’Ungheria. E forse non solo.

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