La legge Cartabia, così come le indicate “quote rosa”, ha voluto garantire l’eguaglianza di genere tra i candidati al Csm, senza tuttavia far nulla di concreto per garantire parità di chance di accesso in concreto all’organo di rappresentanza ed autogoverno
Per le donne magistrato il 9 febbraio 1963 è una data fondamentale perché segna il loro ingresso in magistratura. Oltre diciassette anni dall'entrata in vigore della Costituzione che con l’art 3 ha fissato come principio inviolabile l’uguaglianza anche di genere.
Dal 1946 è trascorso quasi un ventennio (ed una ventina di concorsi per uditore giudiziario dai quali le donne sono state indebitamente escluse) durante il quale il Legislatore è stato silente.
Finalmente la legge 9 febbraio 1963 n. 66 (che ha sancito l’ammissione della donna ai pubblici uffici ed alle libere professioni), con l’Art. 1 dispone: La donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge. L’arruolamento della donna nelle forze armate e nei corpi speciali è regolato da leggi particolari (di fatto l’accesso del genere femminile alle forze armate ed alla polizia giudiziaria è avvenuta soltanto di recente).
Lo scetticismo verso il genere femminile, già manifestato dal Legislatore ante e post Costituzione, permeava la Pubblica Amministrazione ed è stato duro a morire.
Per ragioni cronologiche (necessità di maturare l’anzianità per partecipare a concorsi per funzioni direttive e semidirettive) solo a partire dagli anni 90 abbiamo potuto festeggiare la nomina di uno sparuto numero di donne ai vertici della carriera in magistratura.
Ebbene, se la rappresentanza femminile era carente nei posti apicali della carriera in magistratura, a maggior ragione essa era del tutto assente nel Csm che, quale organo di rappresentanza, è stato espressione e fotografia del comune sentire, della sfiducia verso le donne magistrato.
Il problema dell’assenza o scarsa rappresentanza di genere, (venuto alla ribalta nell’ultimo ventennio anche per il Parlamento, cui si è tentato di ovviare, con le cosiddette “quote rosa” stigma d’inferiorità intellettuale e politica) si è riproposto tale e quale per il Csm.
Ebbene, la Legge Cartabia, così come le indicate “quote rosa”, ha voluto garantire l’eguaglianza di genere tra i candidati al Csm, senza tuttavia far nulla di concreto per garantire parità di chance di accesso in concreto all’organo di rappresentanza ed autogoverno. Ha solo costretto le correnti ad indicare due candidati (un uomo ed una donna), prevedendo, in caso di squilibrio di genere, di procedere al sorteggio ex lege.
Parità di genere
Orbene, buon senso avrebbe voluto che le correnti, rispettose del dettato legislativo, garantissero la parità di genere tra i candidati perché obbligatoria.
Invece, le correnti, continuando a rispondere a logiche meramente spartitorie, hanno violato sul punto la Legge Cartabia, tant’è che il Ministero è stato costretto a procedere all’estrazione a sorte di alcuni candidati per far sì che almeno formalmente fosse rispettata la parità di genere (ad onor del vero anche in favore del genere maschile).
La circostanza ad ulteriore dimostrazione che le correnti ancora oggi designano il candidato che, secondo uno schema prestabilito, ha fatto carriera nella corrente (raggiungendo diversi traguardi: consigli giudiziari, ANM, incarichi extragiudiziari, o deleghe da parte del Capo dell’ufficio).
Orbene, di solito chi si dedica a fare incetta di “medagliette” (come in gergo sono indicati tali incarichi), necessariamente sottrae tempo alla famiglia.
E’ perciò, gioco forza che le donne, al contempo madri di famiglia, si autoescludano, rinunciando a priori financo alla candidatura non potendo garantire la stessa disponibilità di un magistrato maschio.
Occorre però dire che l’evoluzione civile che ha coinvolto in questi anni il mondo delle donne è stata registrata anche in magistratura.
Da quando sono magistrato ho assistito a numerosi cambiamenti positivi a favore delle donne magistrato. Primo tra tutti la tutela della maternità
Ebbene, quando nel 1998 e nel 2000 sono nati i miei figli io ho perso l'indennità giudiziaria- o di servizio- (che è la componente più importante), sicché il mio stipendio è stato decurtato notevolmente per tutto il periodo di astensione obbligatoria per maternità ed dell'allattamento; non ho potuto godere di alcuna agevolazione sul lavoro né quanto all’orario, né quanto al carico.
Ricordo che è stata Stefania Prestigiacomo, ministra per le Pari opportunità ad eliminare quella che era una grossa disparità di trattamento all’interno del pubblico impiego.
Oggi le colleghe non solo non perdono l’indennità giudiziaria, ma godono di tutta una serie di agevolazioni sull’orario, sui giorni di udienza, sul carico di lavoro.
Lettera morta
È vero, purtroppo, che spesso queste tutele rimangono lettera morta perché, a volte, le esigenze dell’ufficio impediscono di fatto di poterne usufruire; oppure, ancor più di frequente, capita che il capo dell'ufficio, con una minaccia più o meno velata, chieda alla collega in maternità di rinunciare (a quelli che sono diritti sacrosanti, risultati di lotte fatte da noi donne magistrato.
Però è anche vero che nella maggior parte dei casi la garanzie a favore della maternità ed io sono testimone di un vero e proprio progresso nel modo di porsi della donna magistrato e nella considerazione che essa ha nella società.
In questa prospettiva di segno positivo si pone la Riforma Cartabia che ha garantito la parità di chance, portando alla candidatura di 40 donne su un totale di 87 candidati per la elezione dei 20 membri togati.
Trattasi di un dato che costituisce un successo rispetto al passato, quando il CSM era esclusivamente di genere maschile e vi erano poche candidate, mere “figuranti”, indicate dalle correnti per “salvare la faccia”, per non essere tacciati di misoginia, pur avendo già deciso a tavolino quale fosse il cavallo (maschio) vincente.
Tuttavia, la Legge Cartabia non è stata in grado neppure di scalfire un problema che ha radici profonde, perché purtroppo di figuranti ce ne sono molte anche adesso, soprattutto tra le sorteggiate ex lege”. La possibilità di chance sulla carta non significa reale parità di genere nelle candidature.
Molte candidate ex lege non hanno fatto neppure un minimo di campagna elettorale.
La Legge Cartabia è stata solo fumo negli occhi: tanti proclami avvincenti, nulla di concreto, solo danno considerato che:
i collegi sono stati formati in modo da impedire di fatto una conoscenza diretta del candidato (il collegio n. 3 va dalla Sardegna all’Emilia Romagna), sicché si ha possibilità di essere eletti solo grazie al passa parola assicurato dalle correnti, non per gli indipendenti come me, sorteggiata dal Comitato Altra proposta.
indire le elezioni del Csm ad una settimana dalla sospensione feriale, col mese di agosto di mezzo, fissando la data delle votazioni ad una settimana dalla ripresa (per il 09/09/22) non ha certo aiutato i candidati che non hanno potuto contare su macchine organizzative come le correnti.
La Riforma Cartabia è stata una grande presa in giro sia per i candidati indipendenti che per i sorteggiati, anche ex lege.
Le Donne Magistrato e gli incarichi verticistici
Ancora oggi gli incarichi direttivi sono ricoperti da donne nel 27 per cento dei casi e da magistrati uomini nel restante 73 per cento, con una differenza di 46 punti percentuali.
Ad onor del vero, la tendenza è da ultima cambiata, se non fosse altro che per ragioni numeriche: da qualche decennio sempre più donne risultano vincitrici del concorso di Magistratura, sicché coloro che sono state nominate con i DM degli anni ‘90, i cui figli hanno raggiunto una certa indipendenza, si trovano ora ad essere nella condizione di aspirare ad incarichi direttivi e semidirettivi. Un esempio è stato il penultimo concorso quale presidente di sezione che ha visto la nomina di ben tre donne magistrato al Tribunale di Napoli Nord e di una donna quale presidente di sezione presso la Corte d’appello di Napoli.
Orami i numeri e l’età delle concorrenti sono dalla nostra parte.
Non bisogna dimenticare comunque che la quantità sempre maggiore di Donne Magistrato ai vertici della carriera lo si deve anche all’evoluzione sociale, che ha contribuito ad attuare nei fatti quella parità di genere, un tempo solo predicata (si pensi alla Carriera Militare, nelle Forze di Polizia). Ma, lo ripeto, la questione è anche numerica, perché statisticamente è sempre più elevato il numero di donne che supera il concorso in Magistratura o nelle Forze dell’Ordine.
Affinché sia rispettata la proporzione di genere presente in magistratura e garantire che le Donne Magistrato ricoprano funzioni direttive e semidirettive e di legittimità occorre ridare centralità al criterio oggettivo dell’anzianità (criterio mai abbandonato dalla Giustizia Amministrativa).
Solo in questo modo si potrà impedire che il merito e le specifiche attitudini (termini generici, scatole vuote da riempire a convenienza) continuino premiare nella magistratura il genere maschile rispetto a quello femminile, meno dedito alla raccolta di “medagliette” (come in gergo vengono definiti gli incarichi e le deleghe dei capi uffici) che richiedono di passare più tempo fuori casa, lontano dalla famiglia, cosa che normalmente viene garantita più dai colleghi che dalle colleghe, soprattutto se con figli in tenera età.
Occorre tuttavia precisare che tra i criteri di valutazione per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi vi è anche la produttività, o meglio l’iperproduttività, ormai richiesta anche in magistratura, espressione dell’impostazione imprenditoriale introdotta dal governo Berlusconi. La norma si fonda sulla geniale idea che per smaltire l’arretrato fosse sufficiente aumentare il carico di lavoro di ciascun magistrato.
Ed infatti l’articolo 37 comma 1, nel 2011 recitava:
1. I capi degli uffici giudiziari sentiti i presidenti dei rispettivi consigli dell'ordine degli avvocati, entro il 31 gennaio di ogni anno redigono un programma per la gestione dei procedimenti civili, amministrativi e tributari pendenti.
Con il programma il capo dell'ufficio giudiziario determina:
a) gli obiettivi di riduzione della durata dei procedimenti concretamente raggiungibili nell'anno in corso;
b) gli obiettivi di rendimento dell'ufficio, tenuto conto dei carichi esigibili di lavoro dei magistrati individuati dai competenti organi di autogoverno, l’ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti pendenti, individuati secondo criteri oggettivi ed omogenei che tengano conto della durata della causa, anche con riferimento agli eventuali gradi di giudizio precedenti, nonché della natura e del valore della stessa.
La riforma Cartabia ha sostituito al “programma di gestione” la locuzione “risultati attesi” (da chi? dai capi/ manager degli uffici) sulla base dell'accertamento dei dati relativi al quadriennio precedente e di quanto indicato nel programma di cui all'articolo 4 del decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 240, e, comunque, nei limiti dei carichi esigibili di lavoro ecc.
Tribunale uguale impresa
L’equazione Tribunale uguale Impresa non è possibile in un sistema giudiziario come il nostro ove la Giustizia, nel solco tracciato dalla nostra Costituzione, è un diritto riconosciuto ai cittadini.
Perciò, lungi da velleità imprenditoriali occorre ribadire che la Giustizia non è merce; i tribunali non sono aziende; le sentenze non sono prodotti; i magistrati non sono addetti a catene di montaggio.
Ogni magistrato è tenuto a svolgere il proprio lavoro in modo scrupoloso, approfondendo ogni problematica, libero dal ricatto della statistica che, trasformando in un mero dato numero, ogni decisione prescindendo dalla sua complessità, particolarità delicatezza del caso concreto, livella il lavoro dei magistrati.
Orbene, se si partisse dal principio indefettibile che ogni magistrato su tutto il territorio nazionale deve fornire la medesima prestazione lavorativa (carico unico nazionale), si genererebbe un circolo virtuoso: a) i capi degli uffici perderanno gran parte del proprio potere; b) i magistrati scrupolosi non saranno più ricattabili con lo spauracchio del procedimento disciplinare in funzione della statistica; c) ogni magistrato vedrà riconosciuta la dignità del suo lavoro, col diritto di godere di almeno un giorno libero a settimana (quanti di noi lavorano anche la Domenica per recuperare ritardi?), di godere e vivere la propria famiglia.
A ben vedere la deriva imprenditoriale della Giustizia colpisce soprattutto le donne magistrato le quali, se non vogliono immolare la propria femminilità e maternità alla Dea Bendata, devono barcamenarsi ogni giorno tra la famiglia ed il lavoro, finendo inesorabilmente col togliere tempo alla prima a favore del secondo.
La soluzione a mio avviso è che il CSM, come organo di rappresentanza individui un carico unico nazionale.
Esso impedirà ai capi degli uffici di alzare ogni anno l’asticella della produttività (per poterne poi spendere i risultati in sede di conferimento di ulteriori e più prestigiosi incarichi); tutelerà ogni singolo magistrato dai ricatti delle correnti (in caso d’illecito disciplinare), ma soprattutto consentirà al Ministero di ripartire su tutto il territorio Nazionale le risorse (magistrati ed amministrativi) evitando isole felici di scarsa produttività ed inferni di ipeproduttività.
Il carico unico nazionale ed anzianità quali criteri oggettivi che il nuovo CSM dovrà usare come capisaldi per indirizzare il Ministero nella formulazione dei decreti attuativi della Riforma Cartabia.
Concludendo, non bisogna dimenticare che noi donne magistrato abbiamo un elemento di ricchezza rispetto ai magistrati uomini, che forse per motivi di eccesso di testosterone hanno un’impostazione competitiva, del lavoro, luogo di sofferenza e di sacrificio.
I Magistrati donna invece, forse perché è scritto nel nostro DNA, esprimiamo anche sul posto di lavoro la voglia di curare le cose che facciamo; vogliamo fare tutto e farlo bene, trasformando il lavoro come luogo di benessere e di accoglienza: l’accoglienza come elemento tipico dell’essere donna.
Io vorrei che ciascuna donna Magistrato qualora approdasse agli incarichi direttivi o semidirettivi, od al Csm, mantenesse la propria identità e peculiarità di genere.
Garantisse negli uffici chiamata a dirige quel benessere lavorativo, espressione del benessere che istintivamente ognuna di noi cerca di creare in famiglia e nella propria casa.
Al contrario, con dispiacere noto che molte colleghe che approdano ai vertici della magistratura, dimenticano la loro essenza di Donna per diventare una mera caricatura di dirigenti uomini, la caricatura di dirigenti gonnella.
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