Proprio dopo aver concluso l’intervista, arriva la notizia che Report ha vinto la battaglia legale contro Andrea Monorchio, che aveva chiesto in sede civile un risarcimento danni per diffamazione dopo un servizio sui suoi incarichi professionali e le attività lavorative del figlio. «Con condanna anche a pagare le spese di lite», specifica Sigfrido Ranucci, volto della trasmissione e giornalista d’inchiesta da trent’anni.

Nel corso del tempo e soprattutto da quando lavora a Report, lui e la sua squadra hanno subito 175 querele e richieste di risarcimento danni, per un totale di molti milioni di euro. «E non ne ho mai persa nessuna», precisa. Alcune di queste si trascinano anche per decenni, anche perché la richiesta di risarcimento del danno civile si può proporre entro cinque anni: «Ci sono capitati casi in cui la causa iniziava dopo quattro anni e mezzo dalla trasmissione del servizio ed era necessario ricordare i dettagli per difendersi, recuperare le carte e i documenti dell’inchiesta». Soprattutto quando la querela è temeraria, ovvero si basa su una pretesa infondata ma che ha l’obiettivo di intimidire o mettere in difficoltà anche economica il giornalista e l’editore che la subiscono.

«In questo mi considero un privilegiato, perché lavoro con la Rai che ha le spalle larghe e può sostenere le spese legali», dice Ranucci, che tuttavia sottolinea come nei contratti Rai sia previsto che, in caso di soccombenza e di dimostrazione del dolo del giornalista, l’azienda si rifaccia sul professionista delle spese a cui è stata condannata.

Diverso, invece, è se la querela temeraria viene intentata contro un giornalista freelance o che lavora per piccole testate locali, perché è su di loro che una querela esercita maggior pressione, soprattutto se manca il capitale per affrontare anche solo le spese legali del giudizio. Eppure, tutte le proposte di legge per introdurre una tutela maggiore per i giornalisti contro le querele a fini intimidatori sono finite nel nulla.

La politica silente

Il nodo della questione è tutto qui, secondo Ranucci: una politica silenziosa e inerte, a cui conviene rimanere tale. «A questo parlamento la libertà di stampa non interessa per nulla» scandisce. E, citando in particolare la sua esperienza a Report, aggiunge che «C’è stato anche un accerchiamento dei giornalisti attraverso le authority di garanzia come l’Agcom. Poi ricordo che l’ultima sentenza del Tar ci ha paragonato a dei funzionari del catasto, chiedendoci di rivelare fonti e metodo di lavoro».

Un silenzio, quello della politica, che è tanto più assordante quanto più si sbilanciano i rapporti di forza. E’ ancora fresca, infatti, la durissima polemica tra Report e il deputato di Italia Viva, Luciano Nobili, che aveva presentato un’interrogazione parlamentare contro un servizio della trasmissione di Rai3 su Matteo Renzi, contenente illazioni non veritiere come il fatto che la trasmissione avesse pagato la fonte. «A fronte di sistemi di controllo dell’informazione quasi spietati, in Italia assistiamo a un totale non controllo sull’operato dei parlamentari, che divulgano dossier falsi sul lavoro dei giornalisti e non incorrono in alcuna conseguenza». Lo scontro molto duro tra Report e Nobili, però, non ha visto prese di posizione da parte della Vigilanza parlamentare sulla Rai «che è sempre molto attenta a vigilare su cosa fanno i programmi, ma forse dovrebbe anche tutelare la Rai dai politici che la attaccano».

I rischi per l’informazione

I numeri pubblicati in un report dell’Istat del 2016 parlano di 9039 querele sporte per articoli di stampa: le archiviazioni sono state 6317, pari al 67 per cento, l’azione penale è iniziata in 2722 casi, pari al 30 per cento ma le condanne sono state 287. Anche solo questo basterebbe a far ritenere che serva inserire un meccanismo di deterrenza. «In Gran Bretagna, quando si scomoda la giustizia civile bisogna lasciare una cauzione, che si perde se viene intentata una causa riconosciuta come temeraria. Se fosse così anche in Italia, i nostri politici non querelerebbero più nessuno», dice Ranucci.

Rimane un interrogativo: quali risultati produce questo disinteresse verso la tutela della stampa indipendente? «Il risultato indiretto di questa situazione è quello di indebolire e omologare l’informazione. Ciò a cui ho assistito in questi anni è che buona parte dei giornali non si occupa di alcuni argomenti per non avere problemi. Per la prima volta, poco tempo fa, mi è successo di ricevere un no da parte di un importantissimo giornale nazionale a cui avevo offerto di dare in anteprima una notizia su un politico di spicco. Mi è stato risposto che su quel giornale di quel politico non si parla. E questa è una deriva molto preoccupante».

In sintesi, per fare informazione libera, che spesso è anche sinonimo di scomoda soprattutto per il potere e i potentati locali, servono denaro ma anche grande credibilità per sostenere gli attacchi, «mentre tutto diventa molto più difficile se si è di piccole dimensioni e soli a doversi difendere». L’alternativa è, appunto, l’omologazione. Questo accade perché molte testate, soprattutto quelle piccole e medie, sono pesantemente condizionate dal groviglio del potere politico e imprenditoriale locale, dato che vivono anche dei contributi e delle sponsorizzazioni dei comuni o delle imprese. «E allora salta subito agli occhi come in queste situazioni è difficile esercitare liberamente l’attività di giornalista, soprattutto se si tratta di indagare sul sindaco di turno».

E allora cosa servirebbe, secondo Ranucci? «Una presa di coscienza della politica e dei singoli politici, perché si rendano conto che dimenticare il valore della libertà di stampa, non accettare il contraddittorio nei dibattiti e affidarsi ai monologhi sul web è come staccare un assegno in bianco dal capitale della democrazia».

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