Il dibattito suscitato dal caso Eni-Domani sulla libertà di stampa e sulla mai approvata legge contro le querele temerarie ai giornalisti sta provocando i suoi effetti: qualcosa si muove, sul fronte politico, nonostante la vicina chiusura del parlamento per la pausa estiva.

Al Senato la presidente del gruppo Misto ed esponente di Leu, Loredana De Petris ha depositato un’interrogazione ai ministri dell’Economia e delle finanze e dello Sviluppo economico, in cui ripercorre la vicenda che ha riguardato il nostro giornale: dopo la pubblicazione di un articolo in cui si affrontava il caso della sentenza Eni a Milano, Eni ha prima inviato una lettera da pubblicare, poi ha inviato al quotidiano una formale lettera di diffida tramite il proprio studio legale, in cui avanza la richiesta del pagamento a titolo di previsionale del risarcimento del danno di 100mila euro, aggiungendo che altrimenti avrebbe scelto le vie legali.

«Considerato che Eni è una società partecipata dallo stato e sottoposta al controllo del ministero dell'Economia e delle finanze e del ministero dello Sviluppo; se confermato, quanto accaduto parrebbe essere un pericoloso tentativo di condizionare e limitare la libertà di stampa e in generale il diritto ad una libera informazione», si legge nell’interrogazione di De Petris, la richiesta mossa ai ministeri è di sapere se essi «siano a conoscenza dei fatti; quali iniziative intendano adottare affinché Eni, quale società partecipata dallo stato, aderisca e rispetti il principio della libertà di informazione e adotti protocolli di comportamento che siano pienamente conformi al rispetto della libertà di stampa».

La storia di Milena Gabanelli

Al di là del caso che riguarda Domani, tuttavia, il tema è più ampio e riguarda la libertà di stampa e il fatto che i giornalisti e le testate non vengano colpite da querele intimidatorie, ai fini di frenarne l’attività d’inchiesta.

Milena Gabanelli, volto storico di Report su Rai 3 e oggi al Corriere della Sera, racconta che «le querele temerarie non mi hanno mai condizionato, perché ho impostato il lavoro considerando il fatto che i diretti interessati possono trascinarmi in tribunale, e di conseguenza ogni affermazione deve sempre essere sostenuta da evidenze documentali. Nonostante questo durante i 20 anni di Report le cause milionarie, spesso intimidatorie, sono fioccate a decine. Fortunatamente sempre vinte, almeno quelle che finora si sono chiuse».

Tuttavia, sottolinea Gabanelli che nei casi di querele l’editore è determinante: «Questo non sarebbe stato possibile se avessi lavorato per un piccolo editore, perché le cause durano anni e l'editore deve accantonare una quota di quella causa nel fondo rischi. Per esempio: H3G mi fece causa per 137 milioni di euro, Eni per 25 (poi la ritirarono), Tosinvest per 10 milioni, il gruppo Cremonini per 10 milioni, Ferrovie dello stato 27 milioni». Il che si sintetizza con una sola conclusione: «In pratica vuol dire che chi non ha spalle larghissime non può permettersi un serio lavoro di denuncia, perché oltre alle cause spesso si aggiungono i ricatti della pubblicità.

Giornali e tv (ad esclusione del servizio pubblico) stanno in piedi grazie alle inserzioni, e perdere un grosso inserzionista perché non ha gradito quello che hai detto o scritto può essere molto problematico». Altra questione problematica è l’assenza di una legge specifica che tuteli i giornalisti dalle querele temerarie. Esiste l’articolo 96 del codice di procedura civile che prevede una sanzione, ma viene applicata in modo raro e con cifre di sanzione irrisorie che non sono un vero deterrente per chi agisce in giudizio. «In una causa che mi riguardava Formigoni fu sanzionato per 5mila euro, che non ha mai pagato perché all’epoca nullatenente».

Non solo, si tratta anche di processi che in Italia viaggiano molto lentamente e Gabanelli è ancora in causa per una causa milionaria risalente al 2011. «Nel diritto anglosassone invece puoi rischiare di dover pagare un multiplo di quello che chiedi, quindi ci pensi bene prima di fare una causa campata per aria. Questo perché gli atti intimidatori, mirati a limitare la libertà di stampa, sono considerati fatti gravissimi. Inoltre questo tipo di processi viaggia velocemente».

La Camera

Le proposte di legge nel corso degli ultimi anni sono state numerose, ma nessuna è mai arrivata nemmeno fino all’aula: tutte sono rimaste impantanate in una selva di distinguo e cavilli. Se in questo momento al Senato è depositato un disegno di legge a prima firma del grillino Primo Di Nicola, tolto dal calendario nel 2020 e mai più inserito, anche alla Camera sul fronte del Partito democratico la disponibilità a lavorare per una legge sul tema esiste.

«Non c’è dubbio che l’informazione sia sotto attacco anche in italia», dice il deputato dem Walter Verini, che nel 2018 era stato primo firmatario di una proposta di legge per scongiurare le querele temerarie ai giornalisti e per eliminare definitivamente il carcere per diffamazione a mezzo stampa. «Ci sono centinaia di giornalisti che con coraggio scavano nei rapporti di malaffare e corruzione e sono indifesi, se non hanno alle spalle aziende editoriali che li tutelino, soprattutto quando subiscono querele intimidatorie di cui poi devono comunque sostenere le spese legali», spiega Verini, che è anche presidente del Comitato per le intimidazioni ai giornalisti della commissione Antimafia.

La necessità, quindi, è quella di «alzare l’attenzione della politica sulle minacce ai giornalisti» e soprattutto procedere con urgenza all’approvazione di una legge che abolisca il carcere per i giornalisti e dia un segnale di vicinanza delle istituzioni anche sul tema delle querele temerarie: «Mi auguro che il Senato riprenda il ddl nei prossimi mesi. Poi toccherà alla Camera e il Pd è disponibile, come lo era all’inizio della legislatura e in assoluta collaborazione con l’Fnsi». La speranza è che alzare l’attenzione sul tema faccia sì che a settembre, con la ripresa dei lavori parlamentari, ritrovi spinta anche l’iniziativa legislativa.

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