L’ex senatore di Forza Italia, Antonio Caridi, è stato assolto dall’accusa di partecipazione alla cosiddetta “cupola” della ‘ndrangheta di Reggio Calabria. La procura aveva chiesto vent’anni di carcere e il capo d’imputazione era il 416bis, associazione di stampo mafioso. Il tribunale di primo grado lo ha assolto perché il fatto non sussiste, dopo cinque anni di processo e 18 mesi di custodia cautelare in carcere. Accanto alla sua assoluzione (e a quella di altri 14 imputati) ci sono state anche 15 condanne, la più pesante a 25 anni di carcere per il politico e avvocato forzista Paolo Romeo.

La notizia dell’assoluzione, passata in sordina sulla stampa e oscurata come spesso accade dal clamore dalle condanne, racconta una storia politica che risale al 2016 ma che sembra appartenere a un’era geologica fa.

Antonio Caridi è un politico reggino di scuola Dc: oggi cinquantunenne, dopo la gavetta in consiglio comunale a Reggio Calabria e poi in consiglio regionale, nel 2013 entra in senato con il partito di Silvio Berlusconi. I problemi giudiziari iniziano nel 2016, quando la direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria lo indaga per associazione mafiosa, indicandolo come a tutti gli effetti un membro della cosiddetta “cupola degli invisibili” della ‘ndrangheta. Il gip accoglie la richiesta di misura cautelare in carcere, che arriva sui banchi del senato. Il 4 agosto 2016, in pieno governo Renzi e a ridosso della pausa estiva, i senatori esaminano il fascicolo per decidere sull’autorizzazione all’arresto: il faldone è voluminoso, circa un migliaio di pagine di intercettazioni ambientali e telefoniche, ma in 24 ore (la giunta delle immunità parlamentari vota il 3 agosto, il senato il giorno dopo) l’aula di palazzo Madama decide per il sì all’autorizzazione. L’allora presidente del senato, l’ex magistrato Piero Grasso, addirittura inverte l’ordine del giorno in modo da votare per l’arresto prima delle vacanze estive, ma anche prima della decisione del tribunale delle libertà a cui i difensori avevano fatto ricorso contro l’arresto.

L’autorizzazione all’arresto

Votano compatti il Pd guidato da Renzi, il Movimento 5 Stelle e la Lega Nord sotto la spinta di toni molto violenti contro Caridi e con il voto contrario della sola Forza Italia e dell’Udc. Il giorno stesso Caridi si costituisce al carcere di Rebibbia e lì trascorre 18 mesi in regime di massima sicurezza. Nel 2017, però, la Cassazione ribalta la decisione del tribunale del riesame che aveva confermato l’arresto e annulla con rinvio l’ordinanza di custodia cautelare. Nel 2018 è il tribunale delle libertà di Reggio Calabria a rimettere in libertà l’ormai ex senatore che ha intanto trascorso un anno e mezzo in carcere in attesa di giudizio.

Ora, la sentenza di primo grado ribalta la tesi accusatoria, scrivendo che il fatto ascritto a Caridi addirittura “non sussiste” e precisando che l’imputazione mossa dalla procura era “esorbitante” e “erronea” in punto di diritto. Anche perché il principale accusatore di Caridi è stato un collaboratore di giustizia ritenuto non credibile sia dal tribunale di Palmi sia dalla Corte d’appello di Reggio Calabria. Ci sarà spazio per l’appello, quasi certamente. Intanto, i difensori di Caridi, Valerio Spigarelli e Carlo Morace hanno precisato che «la procura ha mantenuto sempre la medesima contestazione, oggi dimostratasi infondata» e puntano il dito contro il senato che autorizzò l’arresto con «procedura sommaria, per i tempi imposti dalle pressioni dei settori giustizialisti dei partiti». Mentre Caridi si limita a un commento laconico: «Mi voglio riprendere la mia vita, che è stata mortificata». Non c’è dubbio, infatti, che la carriera politica dell’ex senatore – come di tutti i personaggi pubblici che come lui hanno subìto processi – si sia fermata in quel 2016 e difficilmente possa riprendere.

Come si cambia

Tuttavia, il caso è paradigmatico di alcuni fenomeni che hanno caratterizzato la giustizia (e il processo) penale degli ultimi anni. Sul fronte giornalistico, l’enorme enfasi tutt’ora data alla fase delle indagini preliminari. Su quello giudiziario, l’uso e talvolta anche l’abuso della misura cautelare in carcere prima del giudizio, che viene poi ridimensionata o addirittura esclusa in sede di riesame. Su quello politico, la facilità del concedere il via libera a un arresto sull’onda – in quel caso – di una campagna dai toni molto aspri del Movimento 5 stelle a cui il Pd non ha saputo o voluto opporre alcunché (forse anche perché sul banco degli imputati si trovava un senatore di partito avversario). Curioso, infine, notare il cambio di fronte di alcuni degli interpreti di allora: Matteo Renzi, che oggi è uno degli alfieri del garantismo, e Matteo Salvini, che oggi promuove un referendum sulla giustizia che tra i quesiti ne contiene uno per limitare proprio l’uso della custodia cautelare in carcere. Nella più ottimistica delle ipotesi, dunque, è possibile immaginare che il vento stia cambiando: non nella legittima iniziativa penale dei magistrati che, a prescindere dall’esito del giudizio, hanno piena autorità d’indagine, ma in una maggiore sensibilità della politica quando è chiamata a esprimersi sia nei confronti dei colleghi sia sui tavoli delle riforme.

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