Io, nell’ordine giudiziario, sono un perfetto “signor nessuno”.

Faccio il giudice da trent’anni e non sono iscritto all’Associazione; non sono iscritto a correnti; non sono “apparentato”; non presiedo nulla, non dirigo nulla; non ho incarichi speciali e non sono mai stato fuori ruolo, con una sola eccezione: ventiquattro anni fa fui assistente di studio di un Giudice costituzionale. Rimasi fuori ruolo circa due anni, poi tornai da

dove ero partito.

Mi si dirà: “dunque che ci fai in una competizione elettorale per il Consiglio Superiore? Non lo sai come vanno queste cose? Sei un cane senza collare; sei come Don Abbondio: un vaso d’argilla tra vasi di bronzo. Non ti voterà nessuno”.

La verità è che io non sono candidato per libera scelta. Sono candidato per obbedire a un ordine. A impartirmelo è stato quel padrone inesorabile che si chiama coscienza, e che non cessa di ripetermi: “chi si adatta alle circostanze, le crea”. Mi spiego.

Faccio questo lavoro da 31 anni. L’ho amato e lo amo ancora. Amo il diritto civile e mi piace studiarlo (ognuno ha le sue stranezze). Ci ho profuso impegno, dedizione, sacrificio, la vista e la salute. In cambio ne ho ricevuto la gratificazione morale (magari anche illusoria, ma comunque appagante) di avere portato anch’io un minuscolo frammento alla costruzione di una società civile.

E qui sta il punto. Qualsiasi magistrato ha bisogno di sapere che giudicherà persone che, se pur non lo amano, almeno ne presumano la terzietà, la competenza, l’inavvicinabilità. Insomma, persone che si fidano di lui.

Questa “presunzione di essere persone per bene”, purtroppo, l’ordine giudiziario l’ha perduta, e con essa rischia ora di perdere l’anima. Se è vero quanto riferisce un’indagine di pochi mesi fa, solo il 32% degli intervistati dichiara di avere fiducia nella magistratura.

Sia chiaro, le cause di questo fenomeno sono molte, e molto diverse fra loro. Vi hanno contribuito cattivi maestri; stampa scandalistica; revanchismo di indagati (o condannati) potenti. Ma vi abbiamo contribuito anche noi magistrati.

Vi abbiamo contribuito con condotte appariscenti e odiose, come l’organizzare conventicole per pianificare promozioni e assegnazioni di incarichi direttivi.

Vi abbiamo contribuito anche con condotte meno evidenti, ma non meno alienatrici della pubblica stima: la superficialità in talune decisioni; i contrasti di giurisprudenza coltivati per puntiglio personale; il supporre che l’efficienza ed i tempi del processo siano qualcosa di cui si debbano occupare sempre gli altri, e mai noi in prima persona.

Ebbene, io che amo il mio lavoro non voglio far parte di un ordine giudiziario screditato. Non voglio più leggere o sentir dire che il Presidente del tal tribunale è stato eletto con i voti della “corrente di destra”, o che il Procuratore Generale della talaltra Procura è stato eletto con i voti della “corrente di sinistra”.

Sono stanco di sentir parlare di “magistratura lottizzata”; ne ho abbastanza di sentir dire che gli appartenenti all’ordine giudiziario si preoccupano unicamente delle loro carriere. Non ne posso più di magistrati “impegnati” che appaiono in TV a giorni alterni a discettare sui massimi sistemi, e nell’esercizio delle loro funzioni impiegano anni per portare a termine un pignoramento mobiliare.

Faccio un esempio a caso, uno tra i tanti. Prendiamo un articolo apparso su La Repubblica del 18 febbraio 2021. E’ una notizia tutto sommato banale, una accesa discussione del CSM. Come è presentata dal giornalista? Come se a prendere le decisioni non siano le persone, ma “le correnti”.

L’autore dell’articolo non si fa scrupolo di bollarle “di destra” o “di sinistra” (e come fargliene un torto? Ormai è vulgata). Non riferisce nulla sui fatti della decisione, ma tutto sulle derive “correntizie”. Per trent’anni sono stato a guardare questi fenomeni, tollerandoli a denti stretti. Ora, giunti al punto in cui la considerazione dell’ordine giudiziario nell’opinione pubblica ha toccato il suo minimo storico, ho capito quanto avesse ragione Václav Havel, nel ripetere che “chi si adatta alle circostanze, le crea”.

La mia candidatura, in definitiva, nasce da un imperativo morale: non sono più disposto a tollerare che alcuni pochi, presentandosi all’opinione pubblica come corifei dell’intero ordine giudiziario, ne possano fare ancora scempio, riducendone al lumicino la credibilità e la reputazione.

Del mio lavoro fa parte anche l’immagine della categoria cui appartengo, e non posso più assistere impotente alle condotte interessate ed insensate che tale immagine hanno offuscato.

Ho deciso, insomma, di smetterla di chiedermi cosa può fare il CSM per me, e di iniziare a chiedermi cosa posso fare io per il CSM.

“Figli nostri”, “figli loro” e “figli di nessuno”.

Ripeto, faccio il giudice da 31 anni: ho conosciuto molte centinaia di colleghi, ho assistito a sette “campagne elettorali” per il CSM; ho visto l’operato di sei consiliature.

In tutti questi anni, quando si è trattato di eleggere i componenti togati del Consiglio, spesso ho sentito ripetere che “quelli” sono presuntuosi, “questi” sono accomodanti, “quegli altri ancora” sono inaffidabili.

Ho sentito discorrere dei “nostri” e dei “loro”; ho visto, insomma, il Consiglio divenire non un Areopago di spiriti eletti, come lo volle il Costituente, ma un arengo di lotta ideologica, combattuta dalle correnti. Ho visto e sentito - nei corridoi, nei crocchi, dovunque - sviluppar calcoli da fare invidia al più formidabile giocatore di Sudoku, del tipo: Mevio va in pensione fra n. mesi; allora si libera il posto X; ad esso aspira Caio, “che è dei nostri”, ma anche Tizio, “che è dei loro”; allora si potrebbe chiedere “alla corrente” cui appartiene Tizio di farlo desistere, in cambio dell’appoggio per il posto x che si libererà fra k mesi, e via di questo passo con concertazioni che pietatis causa risparmio al lettore.

Molti oggi discettano di “degenerazione” correntizia, affermazione la quale lascerebbe supporre che le correnti una volta erano una cosa buona e nobile, e poi a poco a poco hanno dirazzato, e prodotto frutti avvelenati.

Io non saprei dire se questo giudizio sia corretto. Non ero ancora nato quando nacquero le prime correnti, e non so come operassero nei loro primordi.

E tuttavia se davvero queste correnti, nate nobili, hanno poi perduto l’anima cammin facendo, allora bisogna dire che l’anima l’hanno perduta già da trent’anni, e non all’epoca dell’hotel Champagne.

Ho visto e sentito troppe volte colleghi aderenti alla cosiddetta “magistratura associata” darsi da fare per sostenere domande del più svariato tipo proposte da questo o quel collega. Sostegni offerti non in considerazione della persona, ma sol perché “questi è dei nostri”.

E quel che trovo più singolare, è che dopo il noto scandalo ci si sia impancati a formulare tesi raffinatissime sul ruolo delle correnti, sulla loro pretesa “degenerazione” e sulla loro necessaria “rifondazione”.

Quando sento questi dibattiti mi viene un gran voglia di chiedere ai loro autori: scusate, cari colleghi, voi dov’eravate negli ultimi trenta anni? No, perché se come me appartenevate all’Ordine giudiziario, è ben strano che non vi siate mai avveduti di come ha funzionato una corrente, cosa faceva e quali obiettivi perseguiva. Oggi, tutti scandalizzati; fino a ieri, tutti tranquilli come niente fosse.

Sia chiaro: l’associazionismo tra magistrati non è certo di per sé esecrabile; il dibattito è sempre proficuo; il confronto è sempre un arricchimento. Ma un conto è associarsi per fini di studio, ben altra cosa è associarsi al solo scopo di controllare il Consiglio e “piazzare” i propri sodali a scapito di quelli altrui, benché più meritevoli.

E’ questo il grande, enorme, irrisolto equivoco dell’associazionismo giudiziario: avere replicato in vitro le lotte, le ambizioni e le alleanze con cui i partiti politici si contendono l’egemonia negli organi legislativi e di governo.

Dimenticando, però, un piccolo particolare: che per un partito politico questo ruolo è legittimo e fors’anche doveroso, alla luce dell’art. 49 Cost..

Ma la Costituzione assegna solo ai partiti il compito di “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Non assegna affatto, invece, alle correnti il compito di concorrere a determinare la politica giudiziaria del CSM.

Al Consiglio, infatti competono scelte sì discrezionali, ma d’una discrezionalità tecnica, non d’una discrezionalità politica, per usare le parole di Sandulli.

Per reggere le sorti d’un Ufficio o d’una Procura; per essere condannati od assolti in sede disciplinare; per essere valutati positivamente o negativamente sul piano della professionalità l’appartenenza correntizia dovrebbe contare zero, anzi meno di zero. E’ una verità banale, ma la verità, si sa, è spesso rivoluzionaria.

Una questione di mentalità

Per cambiare mentalità occorre iniziare con l’ammettere che se un business plan non funziona, lo si deve cambiare. Ora, non vorrei rubare la scena a Monsieur de la Palisse, ma il problema delle cosiddette “lottizzazioni”, a livello teorico, è di una semplicità disarmante. Chiediamoci infatti: come ha funzionato, in buona sostanza, negli ultimi sessant’anni l’accesso al Consiglio Superiore? Col sistema delle correnti.

Vai al Consiglio se ti ci manda la tua corrente. Se sei “cane senza collare” non ci vai. Va da sé che se la tua corrente ti manda al consiglio, tu non puoi deluderla, una volta che al Consiglio ci sei arrivato.

Ora, se da sessant’anni il Consiglio ha funzionato col sistema delle correnti; e se il sistema delle correnti ha prodotto i risultati che sappiamo, non occorrerà l’acume di Protagora per concludere che quel sistema va messo da parte.

Restino i magistrati liberissimi di associarsi come vogliono, quando vogliono, e per gli obiettivi che ritengono più meritevoli: quel che conta è che la libertà di associazione non trasmodi in una manus iniectio sul Consiglio Superiore.

Sistema elettorale e candidature da un lato, e libertà di associazione dall’altro, dovrebbero restare mondi che dialogano, e non cinghie di trasmissione del moto dall’uno all’altra. Allora, che fare?

I magistrati figli di nessuno e che amano il proprio lavoro hanno tre problemi. Per semplificarli al massimo, correrò il rischio d’esser banale. Il primo problema è “avere paura” del Consiglio Superiore. Il secondo problema è l’erosione della loro indipendenza. Il terzo problema, dal quale discendono gi altri due, è la perdita di rispetto, prestigio e credibilità nell’opinione pubblica e nel legislatore.

Il primo problema va affrontato liberandosi dell’idea i magistrati vadano valutati in base a “quanto hanno prodotto”, e non in base a “cosa e quanto hanno prodotto”.

Il secondo problema va affrontato denunciando in ogni sede l’illegittimità costituzionale di alcuni punti della riforma dell’ordinamento giudiziario.

Il terzo problema, il più importante di tutti, va affrontato dedicando ogni sforzo ad elevare la levatura intellettuale, morale, professionale di ogni magistrato.

Illustrerò più brevemente che posso questi tre punti.

La paura del Consiglio

I magistrati figli di nessuno hanno paura del Consiglio in genere per due ragioni: o temono di vedersi scavalcati da colleghi meno meritevoli, ma più “apparentati”; o temono di vedersi addebitare come colpa l’omissione di condotte oggettivamente impossibili da tenersi.

Per liberarsi della prima paura occorre liberarsi delle logiche di appartenenza. E per liberarsi dalle logiche di appartenenza la prima salutare misura sarebbe quella de-correntizzare il Consiglio.

Per liberarsi della seconda paura il discorso è più lungo. Sono dieci anni che il tema dei “carichi esigibili” fa versare fiumi di inchiostro agli addetti ai lavori e non solo.

Il problema si può così riassumere: i “carichi esigibili”, da strumento puramente euristico originariamente concepito per la misurazione dell’efficienza e dell’efficacia dell’amministrazione giudiziaria, si sono trasformati in un’arma brandita da due schieramenti opposti.

Da un lato, essi sono usati come blandizie per assicurare i meno volenterosi (o i più pavidi) che tutto sommato possono star tranquilli: nessuno chiederà loro di ammazzarsi di fatica.

Dall’altro lato, però, essi con giubilare ciclicità sono riesumati ed utilizzati come una spada di Damocle sul capo di ogni magistrato, pronta ad essere brandita quando si tratterà di valutarne la professionalità.

Si tratta di una logica perversa e pervertitrice. I magistrati non vanno blanditi promettendo loro che lavoreranno poco, né minacciati agitando lo spettro del giudizio negativo di professionalità, se non producono quanto richiesto.

Il magistrato deve lavorare sine spe ac metu, e per metterlo in queste condizioni sono necessarie tre precondizioni.

La prima: è inutile nascondersi che anche nell’ordine giudiziario esistono alcuni scansafatiche. E sono particolarmente detestabili, in quanto - lavorando meno - costringono i colleghi a lavorare di più per rimediare alle loro pochezze. Dunque munirsi di un benchmark per stabilire se un magistrato possa o debba dare di più non è un attacco alla sua imparzialità; è uno strumento necessario per una più efficiente amministrazione della giustizia. E’ uno strumento utilizzato in tutti i Paesi civili e non deve fare paura.

La seconda: nel settore civile (l’unico nel quale mi sento di poter esprimere un parere) deve valere il principio di universalità della valutazione di laboriosità. Intendo dire che nella relativa valutazione deve tenersi conto sia della produttività media nazionale, sia delle condizioni oggettive dell’ufficio cui appartiene il magistrato. Non è una valutazione che si può fare con un algoritmo o con moduli prestampati, ma è una valutazione che va fatta caso per caso, con cuore e testa. Per dirla con Kant, deve essere un giudizio analitico a posteriori, e non sintetico a priori.

La terza: nel settore civile è impensabile pretendere di ricavare valori medi di produttività utilizzando insiemi talmente generali da risultare inservibili: ad esempio, la materia delle “locazioni” o del “lavoro”. Esistono le locazioni di aziende e di garage; di fondi rustici e di appartamenti; di marchi e di titoli. Se si intendono ricavare valori medi nazionali, questi vanno desunti da insiemi omogenei di materie, e non calcolati “a spanne”.

 L’erosione dell’indipendenza

L’art. 3, lettera g, della legge delega 71/2022 (ma non è la sola norma in tal senso) prevede che i magistrati siano valutati periodicamente “accertando la sussistenza di gravi anomalie in relazione all’esito degli affari nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento”. E’ una norma sorretta da una logica poliziesca e sospettosa, e perciò pericolosa.

Il magistrato il quale sa che, al momento del giudizio sulla sua professionalità, non conterà quanto di buono ha fatto per l’ufficio e per l’amministrazione della giustizia, ma conteranno solo i numeri ed i termini, è un magistrato intimidito.

E’ un magistrato che non avrà probabilmente nessuna voglia di dedicarsi al progresso delle scienze giuridiche, né alla sua elevazione culturale.

Al contrario, il magistrato il quale sa che al momento della valutazione di professionalità conteranno anche le sue intuizioni, le sue ricerche, le sue proposte innovative, le sue iniziative coinvolgenti altri colleghi, sarà un magistrato incentivato, che avrà ogni interesse a veder crescere,con la propria levatura culturale, l’efficienza dell’ufficio cui appartiene.

La professionalità prima di tutto

E’ inutile fare finta di negarlo: da vent’anni, qualunque rivendicazione avanzi l’Ordine giudiziario, anche la più rispettabile o ineccepibile, si sente immancabilmente rispondere: “zitti, voi, che avete lasciato accumulare due milioni di cause civili pendenti!” E’ questa l’exceptio inadimpleti contractus che l’Ordine giudiziario, a torto o a ragione, si vede sempre sollevare a fronte di qualsiasi rivendicazione.

E non importa se la colpa non è nostra, o non è solo nostra. Noi ormai siamo quelli che non sanno rendere giustizia: perché dunque starci a sentire?

Il punto di caduta di questo purtroppo telegrafico (e quindi inevitabilmente sincopato) ragionamento è il seguente: per essere ascoltati, bisogna essere autorevoli.

Per essere autorevoli, bisogna essere competenti. Per essere competenti, bisogna garantire una professionalità superiore alla media. Bisogna essere più bravi degli altri, più efficienti degli altri, più imperturbabili degli altri.

Per essere ascoltati non serve strillare, se non s’hanno crediti morali da far valere nei confronti dell’interlocutore.

E noi questo credito l’abbiamo perduto e non lo recupereremo, se non dimostriamo coi fatti di volere almeno iniziare ad abbandonare prassi e entalità degli anni Ottanta del secolo scorso.

Da ultimo, ma non per ultimo: un magistrato autorevole è un magistrato professionale. Un magistrato professionale non può essere un azzeccagarbugli. Per avere un magistrato professionale bisogno stimolarlo, incentivarlo, invogliarlo, aggiornarlo: in una parola, “educarlo” alla nostra delicatissima professione.

Un magistrato professionale è un magistrato che si aggiorna, è un magistrato che impara, ma è anche un magistrato che insegna. Nulla come l’insegnamento costringe a tenersi aggiornati, stimola la riflessione, suscita il dubbio sulla correttezza di soluzioni tralatizie.

La professionalità dei magistrati è fatta di tante cose, e tra queste rientra anche il diritto e la libertà di dedicarsi all’attività scientifica, allo studio ed all’insegnamento.

Un magistrato davvero professionale deve essere libero di mettere le sue competenze a disposizione degli Ordini professionali, delle Università, delle Amministrazioni, senza la farraginosa, umiliante e pauperista procedura oggi prevista per le autorizzazioni allo svolgimento di incarichi extragiudiziari di docenza. I magistrati debbono tornare ad essere liberi di collaborare con le scuole di formazione per avvocati e per magistrati. Ne trarrebbero beneficio loro, e ne trarrebbero beneficio i candidati.

La professionalità dei magistrati crescerà, e di molto, quando saranno profondamente rivedute tutte le attuali norme di fonte consiliare sugli incarichi extragiudiziari di docenza, norme che dovranno essere almeno parificate a quelle vigenti per i magistrati amministrativi.

© Riproduzione riservata