Il caso dell’uxoricida di Brescia è solo l’ultimo in ordine di tempo. Il processo mediatico, alimentato di notizie date in modo distorto, ha emesso l’ennesima sentenza e i condannati sono i giudici. Per ricostruire i passaggi che hanno portato a convincere l’opinione pubblica che un tribunale abbia assolto un assassino con la scusante del «delirio di gelosia», è necessario ricostruire i fatti.

La Corte d’assise di Brescia, ovvero il tribunale competente a giudicare i reati più gravi come i delitti di sangue e composto da due giudici togati e sei popolari, ha pronunciato sentenza di primo grado sul caso di un uxoricidio avvenuto nel 2019. Antonio Gozzini, ottant’anni, era imputato per l’omicidio della moglie sessantaduenne, tramortita con un martello e poi accoltellata.

L’uomo ha vegliato il corpo 12 ore, poi ha chiamato la polizia. A determinare l’esito del processo sono state due perizie psichiatriche. Sia quella disposta dal pubblico ministero che quella chiesta dalla difesa sono giunte allo stesso risultato: Gozzini è affetto da quella che in psicologia viene chiamata “Sindrome di Otello”, ovvero una sindrome psicopatologica che provoca una gelosia delirante, che lo ha reso incapace di intendere e di volere nel momento dell’omicidio. L’imputato reo confesso ha una storia pregressa di malattia psichiatrica ed è affetto da disturbo bipolare e depressivo. Il pm, disattendendo l’esito della perizia, ha comunque chiesto la condanna all’ergastolo.

La Corte d’assise, invece, ha ritenuto attendibili le perizie e ha pronunciato sentenza di assoluzione per difetto di imputabilità dovuto a vizio totale di mente. Il pm ha già annunciato che ricorrerà in Corte d’assise d’appello, intanto Gozzini è detenuto nel carcere di Milano Opera ed è malato di Covid. La condizione psichiatrica dell’imputato è stata ritenuta dai periti tale da renderlo socialmente pericoloso e proprio per questo è stata disposta una misura di sicurezza: Gozzini non tornerà in libertà ma verrà trattenuto in una Rems, gli ex manicomi criminali ora strutture sanitarie di accoglienza per gli autori di reati affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi. Questa è la ricostruzione processuale, a cui manca ancora un ultimo capitolo, perché la sentenza verrà depositata entro tre mesi e conterrà la motivazioni dell’assoluzione per difetto di imputabilità.

La bolla mediatica

Tuttavia il racconto del caso sui giornali ha prodotto una serie di distorsioni e di conseguenze. «Uccide la moglie e viene assolto per delirio di gelosia», titola l’Ansa e poi a ruota tutti i giornali, mentre sul web diventa: «Assolto femminicida che uccise la moglie a coltellate: per il giudice è stato un “delirio di gelosia”», scrive Fanpage. Il che si è tradotto nella percezione di un tribunale che rimette un assassino a piede libero, giustificandolo col movente passionale. Infatti, a fare breccia nei media, è la motivazione del «delirio di gelosia». Il termine, preso in senso non tecnico, ha trasformato la decisione della corte in una sorta di ripristino del delitto d’onore, che prevede una pena inferiore per il marito tradito che uccide la moglie.

Al culmine delle polemiche sui giornali, è arrivata anche notizia di un intervento del ministero della Giustizia: Alfonso Bonafede avrebbe mandato gli ispettori del ministero a Brescia, per valutare l’operato del tribunale. Anche questo risulta essere falso, anche perché attivare una ispezione prima ancora del deposito delle motivazioni della sentenza sarebbe un’evidente invasione di campo tra potere esecutivo e potere giudiziario. Lo stesso ministero della Giustizia ha dovuto diramare una nota di precisazione: «Non è stata avviata alcuna ispezione né indagine esplorativa, come da alcuni organi di stampa erroneamente riferito in questi giorni. Come da prassi, vi è stata una mera trasmissione della notizia agli uffici competenti per le valutazioni e gli eventuali accertamenti del caso».

I colpevoli diventano i giudici

Eppure, l’opinione pubblica ha già identificato il colpevole di questo processo mediatico: i giudici che avrebbero rimesso in libertà un omicida, anzi un femminicida. L’indignazione contro i magistrati è stata tale che lo stesso tribunale – in seguito alle notizie di ispezioni ministeriali – ha ritenuto necessario diramare una nota: «Appare necessario anche ai fini di una corretta informazione, in attesa della sentenza, tenere doverosamente distinti i profili del movente di gelosia dal delirio di gelosia, quale situazione patologica da cui consegue una radicale disconnessione dalla realtà tale da comportare uno stato di infermità che esclude, in ragione di un elementare principio di civiltà giuridica, l’imputabilità».

In un definitivo cortocircuito, si sono ribaltati i piani: il tribunale di Brescia è diventato l’imputato e ha dovuto difendersi dall’opinione pubblica, giustificando l’esito di un processo che, secondo i media, doveva concludersi in modo diverso. Il fenomeno sempre più frequente è frutto di una serie di fattori. «Disinformazione, giustizialismo dilagante, ossessione punitivista, crescente sfiducia nella magistratura e subcultura del processo mediatico», spiega Vittorio Manes, professore di diritto penale all’università di Bologna, che individua le due vittime del processo mediatico. La prima è il principio della presunzione di innocenza, l’altra sono proprio i giudici, «che subiscono una espropriazione della propria giurisdizione e vedono ridotte le proprie “sentenze” a semplici “opinioni”, che peraltro arrivano dopo una presunta “verità” già anticipata e conclamata nel proscenio dei media».

La stessa magistratura associata è intervenuta sulla vicenda, soprattutto in relazione alla notizia data in due tempi dei presunti ispettori ministeriali. Non è la prima volta, infatti, che il ministero annuncia ispezioni in seguito a casi mediatici. Tuttavia le ispezioni, dopo essere state annunciate e riprese dai media, non producono mai esiti concretamente valutabili: le relazioni degli ispettori, infatti, non sono pubbliche e l’unica possibile conseguenza è un eventuale provvedimento del ministro. Il gruppo di Magistratura democratica ha polemizzato con la scelta di tempi del Guardasigilli: «Secondo uno schema ricorrente, si sovrappongono la reazione pubblica a una decisione giudiziaria, la risonanza mediatica per un esito diverso da quello atteso e l’annuncio di iniziative del ministro». Esattamente come già accaduto nel caso delle “scarcerazioni” a causa della pandemia, che invece erano decisioni di detenzione domiciliare o nel caso di Bibbiano. Il caso dell’uxoricida è l’esempio del mondo invertito in cui rischia di cadere la giurisdizione: i media diventano i giudici; i magistrati gli imputati e il ministero della Giustizia il pm.

© Riproduzione riservata