La libertà di informazione è uno dei principi costituzionali più citati, ma anche meno difesi nella prassi. Denunce pretestuose per diffamazione e liti temerarie contro i giornalisti vengono spesso utilizzate non per veder tutelata (e risarcita) la propria reputazione, ma per inibire l’iniziativa di chi indaga per far emergere verità che sempre più spesso vengono taciute. Nelle ultime settimane Domani è finito al centro di uno scontro con Eni che ha chiesto il pagamento di 100mila euro entro dieci giorni a titolo di risarcimento per una presunta campagna diffamatoria.

Il tutto senza aver avviato alcuna azione di tipo giudiziario. La materia è complessa, tuttavia «la tutela generale è insufficiente. Per i giornalisti è necessario un regime di tutela specifico, meglio rispondente alle peculiarità del mondo dell’informazione», spiega l’ex magistrato Nello Rossi, direttore editoriale di Questione giustizia, la rivista giuridica di Magistratura democratica.

La professione giornalistica merita particolare tutela giuridica?

È evidente che la libertà di informazione si salvaguarda “anche” fornendo ai giornalisti, che ne sono i principali attori, un quadro di certezze e di garanzie giuridiche. Il che significa misurarsi con i problemi posti dalla figura bifronte del giornalista, che ha due volti diversi e opposti.

Quali?

Per un verso il giornalista, che di regola vive solo del proprio lavoro, è un soggetto debole, che deve essere protetto dalle possibili ritorsioni e intimidazioni dei detentori del potere politico o economico. Ma egli esercita anche un temibile potere nei confronti dei singoli cittadini perché – con l’uso arbitrario della sua libertà – può ledere beni preziosi come l’onore personale e professionale e la reputazione. Di qui l’esigenza di contemperare tutela e responsabilità.

Una recente sentenza della Corte costituzionale è intervenuta, dichiarando parzialmente incostituzionale il carcere per i giornalisti in caso di diffamazione a mezzo stampa, nell’inerzia del parlamento. Quali interventi legislativi servirebbero, oggi?

In Italia le condanne di giornalisti a pene detentive per il reato di diffamazione erano ormai una rarità assoluta. Ma la decisione della Consulta resta importante perché ha chiarito definitivamente che il carcere per i giornalisti è in contrasto con la Costituzione e che una pena detentiva è concepibile solo nei casi limite dell’aperta istigazione alla violenza e dei discorsi di odio. La stessa Corte era consapevole che la sua decisione avrebbe comunque avuto una portata limitata e perciò l’aveva rinviata di un anno, sollecitando il parlamento ad approvare una nuova disciplina in materia di diffamazione a mezzo stampa e di azioni civili temerarie. Purtroppo, come già accaduto per la disciplina del fine vita, il termine annuale è decorso senza interventi del legislatore, che restano però indispensabili.

Non esiste solo la dimensione penale, dunque. Uno degli strumenti tipici per inibire l’iniziativa giornalistica sono le azioni civili temerarie: costano solo le spese di giudizio a chi le propone, ma per un giornalista – specialmente un freelance – sono un peso che spesso si trascina per anni. È una prassi che si può inibire?

In quest’ambito non sono concepibili divieti o preclusioni assolute. Contro gli abusi – che ci sono – occorre invece mettere in campo un forte potere deterrente che oggi nel nostro ordinamento non esiste. Con lo sguardo rivolto soprattutto ai giornalisti più giovani spesso precari e privi di copertura assicurativa.

Come si accerta la temerarietà di una causa e che elementi devono integrare la malafede e la colpa grave di chi agisce in giudizio?

Gli indici rivelatori della colpa grave o della malafede possono essere diversi. Una rappresentazione gravemente falsata di fatti che potevano essere accertati con la normale diligenza. La deliberata scelta di ignorare orientamenti interpretativi consolidati. Errori marchiani sul piano procedurale. Inoltre la parte soccombente può essere condannata d’ufficio a pagare un’ulteriore somma, determinata equitativamente dal giudice, quando questi ritenga che vi sia stato un vero e proprio “abuso” dello strumento del processo.

Queste norme di carattere generale sono sufficienti a tutelare i giornalisti da azioni intimidatorie o ritorsive?

A mio avviso no. Nel contenzioso riguardante i giornalisti entrano in campo variabili – economiche, politiche, culturali – che richiedono un regime di tutela specifico, meglio rispondente alle peculiarità del mondo dell’informazione.

Come sarebbe possibile realizzare una maggiore deterrenza?

Chi promuove un’azione civile, rigettata dal giudice perché chiaramente infondata e pretestuosa, dovrebbe essere a sua volta condannato a pagare al giornalista una somma elevata a titolo di risarcimento. Somma che può essere predeterminata per legge – ad esempio un quarto della domanda risarcitoria, come prevede il disegno di legge Di Nicola all’esame del Senato – o quantificata dal giudice a partire da una significativa soglia legale. Una sorta di contrappasso per scoraggiare le richieste di risarcimenti milionari, proposte con la prevalente finalità di intimidire.

Tuttavia siamo ancora all’anno zero e, nonostante molte proposte di legge si siano susseguite negli anni, nessuna è mai arrivata all’approvazione.

In effetti la politica non sembra aver l’interesse o la capacità di adottare iniziative riformatrici. Al Senato sono da tempo impantanati sia il ddl Di Nicola in materia di liti temerarie, sia il disegno di legge di riforma complessiva del reato di diffamazione a mezzo stampa, che peraltro è stato oggetto di numerosi rilievi critici da parte di organismi rappresentativi dei giornalisti. Sono state criticate, in particolare, la mancata depenalizzazione della diffamazione (rimangono infatti in vita multe penali ritenute troppo elevate) e il regime delle rettifiche che estinguerebbero il reato ma solo a patto che la rettifica sia pubblicata senza alcuna replica.

È la politica ad avere più da perdere se si crea un deterrente alle querele temerarie?

Non sono un esperto di retroscena politici. Ma credo che la politica dovrebbe avere più coraggio e più capacità innovativa. E non solo sul versante delle liti temerarie. Si deve puntare maggiormente sulla giustizia riparativa che rammenda gli strappi e le lacerazioni del tessuto sociale provocati dall’illecito. Nella società dell’informazione e dell’immagine la più incisiva riparazione del danno provocato da un articolo lesivo dovrebbe consistere nella pubblica ammissione dell’errore e nella “restaurazione” della reputazione compromessa.

Un capitolo a parte va dedicato anche alle querele dei magistrati ai giornalisti. Il tema è delicato perché si tratta di due figure di controllo democratico, che però spesso si scontrano ed esiste un preconcetto che dice che i magistrati querelanti vincano sempre, perché il giudice della controversia è loro collega.

Da più parti si sono di recente levate critiche contro i magistrati che propongono querele. Non le trovo giuste. Da un lato le statistiche giudiziarie smentiscono ampiamente la tesi che i magistrati “vincano sempre”. Dall’altro lato c’è da considerare che per un magistrato l’onore professionale e la reputazione non sono orpelli ma strumenti essenziali di lavoro, che a volte è necessario difendere accettando il rischio del giudizio. Piuttosto c’è da superare il malvezzo per cui una affermazione diventa vera se non c’è stata una querela.

Siamo di fronte all’ennesimo cortocircuito di un sistema imperfetto?

La libera stampa e la magistratura indipendente devono operare come “poteri infedeli”, liberi da pregiudiziali vincoli di fedeltà verso altri poteri ma anche pronti a controllarsi reciprocamente. È quando questa “sana” relazione di reciproca infedeltà si inceppa, quando i due poteri non si controllano a vicenda ma si coalizzano e colludono impropriamente che cominciano le deviazioni e le scorrettezze.

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