“La nottola di Minerva si leva al tramonto”. Così, icasticamente, Hegel descriveva i tardi risvegli e la lentezza della filosofia nell’affrontare i temi posti dall’attualità. Magistrati e giornalisti hanno però il dovere di essere animali un tantino più mattinieri. Soprattutto di fronte a nuove norme che li chiamano direttamente in causa, incidendo in profondità sui loro difficili mestieri.

Per questo, superato il torpore agostano, sta crescendo l’attenzione per il decreto legislativo delegato sulla presunzione di innocenza, che il 6 agosto il governo ha inviato alle camere per ottenerne il parere prima del varo definitivo del provvedimento.

Il governo - è questa la prima peculiarità della vicenda– si è mosso solo ora per dare attuazione alla Direttiva Ue "sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza”, che risale al 9 marzo del 2016. Se ne deve desumere che vi è stato un colpevole ritardo dell’Italia nell’adeguarsi agli standard voluti dall’Europa? Non è così. In una prima fase il nostro Paese ha ritenuto, e con ragione, che la presunzione di innocenza fosse già pienamente garantita e che perciò non vi fosse bisogno di dettare nuove norme.

La relazione della Commissione

La consapevolezza di avere le carte in regola nei confronti dell’Unione (ed anzi di avere un processo penale molto più  garantista di quello di altri paesi) è stata però parzialmente revocata in dubbio a seguito di una relazione della Commissione europea sullo stato di attuazione della direttiva. Benchè rispettata nel processo - scriveva la Commissione - la presunzione di innocenza può essere vulnerata e contraddetta da una serie di discutibili comportamenti: anticipate dichiarazioni “colpevoliste” delle autorità pubbliche; condanne  emesse in processi mediatici celebrati dalla stampa o nelle televisioni; disinvolte forme di comunicazione di alcuni uffici di procura; decisioni giudiziarie adottate nel corso del procedimento penale ( ad esempio misure cautelari) che diano già per scontata una colpevolezza ancora da accertare. Ed è appunto su questi versanti che il governo interviene, dettando una disciplina principalmente rivolta alle autorità pubbliche, ai magistrati ed alle forze di polizia incaricate delle indagini ma densa di ricadute anche su tutti  gli organi di informazione.

Giro di vite per le procure

Il decreto esordisce con un rigoroso divieto indirizzato alle autorità pubbliche, alle quali è proibito di indicare “pubblicamente” l’indagato o l’imputato come colpevoli fino a quando la colpevolezza non sia stata accertata con una pronuncia definitiva e irrevocabile.

Chi viola questa regola va incontro a severe conseguenze: sanzioni disciplinari o penali ( ad esempio per diffamazione) e l’obbligo di risarcire il danno. Ma vi è di più: chi sia stato “additato” come colpevole in violazione della presunzione di innocenza avrà il diritto di chiedere all’autorità che ha reso la dichiarazione una “rettifica” (modellata su quella prevista dalla legge sulla stampa) e, in caso di rifiuto o di silenzio, di chiamarla dinanzi al giudice per ottenere un ordine di rettifica.

Una piccola rivoluzione culturale e giuridica, dunque, che colloca su di un piano di parità imputati e “autorità pubbliche". Formula amplissima, quest’ultima, che comprende non solo pm, giudici e polizie, ma anche ministri, funzionari ed esponenti di agenzie e di enti pubblici, che abbiano formulato sbrigativi e incauti giudizi anticipati di colpevolezza. Non però, almeno a parere di chi scrive, i parlamentari che si esprimano nell’esercizio delle loro funzioni, perché per essi resta fermo il regime di immunità (espressamente richiamato nella Direttiva Ue) , mentre il rispetto della presunzione di non colpevolezza varrà solo come regola etica non sanzionabile giuridicamente.

Anche per le procure è in arrivo un giro di vite. Bandita ogni comunicazione informale o colloquiale con la stampa, i procuratori potranno parlare quando ciò sia utile per la prosecuzione delle indagini o nei casi in cui vi sia un interesse dell’opinione pubblica  alla conoscenza, ma dovranno farlo “esclusivamente”  attraverso comunicati ufficiali o conferenze stampa. Così come si dovrà dire addio – per la verità senza soverchi rimpianti – alle denominazioni fantasiose dei procedimenti penali che istillino nel pubblico “pregiudizi” di colpevolezza.

Soluzioni drastiche

L’impressione è che le intemperanze di pochi abbiano suggerito soluzioni fin troppo drastiche a dispetto della correttezza della maggioranza degli uffici di procura. Con il rischio che alle sporadiche forme di “arbitrio della parola” - troppo a lungo tollerate e non sanzionate anche solo sul piano etico - succeda un problematico  “arbitrio del silenzio” degli inquirenti sulle informazioni lecite riguardanti i procedimenti penali.

L’aspetto più spinoso è però quello relativo alle motivazioni dei molti provvedimenti “interinali” adottati dai giudici nel corso dei procedimenti.

 Qui il decreto del governo imbocca la via degli artifici verbali e delle acrobazie espressive chiedendo ai giudici di passare in rassegna e argomentare gli elementi che dimostrano la colpevolezza del “presunto innocente” senza mai revocare in dubbio la presunzione di non colpevolezza. Laddove sarebbe più lineare e coerente pretendere che ogni decisione indichi, con chiarezza e in premessa, che i convincimenti del giudicante hanno un carattere relativo e provvisorio perché maturati in una fase del procedimento diversa da quella della decisione sul merito.

Le ricadute sull’informazione

Quali saranno, infine, le ricadute sull’informazione? Su questo terreno si apre una partita con poche certezze.

Da un lato la tutela del diritto alla presunzione di innocenza sarà indubbiamente rafforzata anche nei confronti degli organi di informazione (peraltro mai direttamente chiamati in causa nel decreto). Dall’altro lato, i giornalisti che si limiteranno a riportare dichiarazioni “colpevoliste” delle autorità pubbliche non ne assumeranno la responsabilità e non saranno tenuti a rettifiche,  anche dopo che le autorità, spontaneamente o per ordine del giudice, abbiano dovuto modificare il tenore delle loro affermazioni.

Il “diritto dei libri” e il “diritto in azione”, la riflessione teorica e la prassi si incaricheranno di dire se le nuove disposizioni segneranno l’avvio di una trasformazione culturale profonda o se saranno solo una mano di biacca destinata a mascherare malamente il sopravvivere di inveterati pregiudizi.

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