Non solo in parlamento si discute di separazione delle carriere. Nei giorni scorsi la riforma costituzionale della giustizia è approdata – blindata – al Senato e i migliori auspici del centrodestra la vorrebbero approvata entro il 26 giugno. L’obiettivo è quello di arrivare a chiudere la doppia lettura a fine 2025, così che il referendum costituzionale si possa celebrare già a giugno 2026.

Una corsa contro il tempo che ha una spiegazione chiara: a luglio l’attuale Csm concluderà formalmente il suo mandato e – se la riforma fosse approvata – i prossimi consiglieri verrebbero eletti con sorteggio («temperato», specifica una fonte di centrodestra, secondo cui le leggi attuative ammorbidiranno il sorteggio puro), evitando eventuali proroghe degli attuali eletti oppure che si torni a votare con la legge Cartabia. Su questa tempistica, però, fonti del ministero della Giustizia sono scettiche: «Difficile», anche che per giugno prossimo siano pronte le leggi attuative.

Un interrogativo, però, accomuna sia la maggioranza che la magistratura: che cosa farà il Pd? Il partito ha organizzato per oggi il convegno “Giustizia secondo Costituzione” e la segretaria Elly Schlein parlerà per ribadire la linea della contrarietà alla riforma Nordio. Un’incognita serpeggia, però: la separazione delle carriere è tema delicato, su cui in passato i Riformisti della mozione Martina si erano espressi a favore.

Oggi la linea è che «con la riforma Cartabia che ha limitato a un singolo passaggio di funzione il problema è superato», come ha detto la senatrice Simona Malpezzi. Tuttavia l’intervento di Goffredo Bettini sul Foglio – secondo cui la separazione è «un passo doveroso nella direzione di una maggiore terzietà del giudice» – ha scombinato le carte e fatto emergere dubbi. La campagna referendaria non sarà un pranzo di gala e il Pd dovrà decidere come e quanto scendere in campo.

Fonti vicine alla segretaria certificano che la linea ufficiale è quella contro la riforma e che l’impegno forte ci sarà. Il blocco riformista, sulla carta, concorda. Ma dentro c’è chi spiega che il focus sarà soprattutto sul metodo «inaccettabile» usato per cambiare la Costituzione. Con una comune convinzione tra i dem: se Giorgia Meloni vincerà il referendum, il bis al governo sarà più vicino.

La mossa della Cassazione

Non c’è solo la politica, però. La magistratura si sta muovendo con i suoi modi e i suoi tempi: quella associata è da tempo mobilitata, quella istituzionale invece rinsalda i legami tra istituzioni. Per questo non è passata inosservata l’Assemblea generale che si è tenuta giovedì in Cassazione, indetta dalla Prima presidente Margherita Cassano per discutere delle «prospettive di una moderna nomofilachia», ovvero della funzione della Suprema corte di garantire l'uniforme interpretazione della legge.

L’Assemblea è un caso più unico che raro e per organizzarla Cassano – il cui incarico scadrà il 4 settembre – ha rispolverato una prerogativa che l’Ordinamento giudiziario le riconosce ma viene raramente utilizzata: l’ultima volta è successo dieci anni fa. Tuttavia tempi complessi richiedono iniziative all’altezza.

L’organizzazione è iniziata a gennaio, la data è caduta in concomitanza con l’arrivo al Senato della riforma della giustizia, la presenza più prestigiosa è stata quella del presidente della Repubblica e del Csm Sergio Mattarella, seduto in prima fila insieme alle alte cariche dello stato e al ministro della Giustizia Carlo Nordio.

Nel suo intervento, Cassano ha sottolineato i buoni risultati raggiunti dalla Corte nello smaltimento dell’arretrato come previsto dal Pnrr, considerando soprattutto «l'impressionante numero di ricorsi in Cassazione, pari a oltre 80.000 l'anno, che non ha eguali nel panorama europeo».

Nel merito delle riforme, la presidente ha ricordato la necessità che all’impegno delle toghe si affianchino «misure di sistema rientranti nelle attribuzioni esclusive del legislatore». Poi ha elencato i punti critici, in particolare i rischi di effettività della risposta giudiziaria davanti alla «continua proliferazione di nuovi reati che rischiano in concreto di vanificare le tutele».

Riferendosi alle toghe come «parte di un’unica grande comunità giuridica», Cassano ha ricordato che «ai magistrati sono richiesti senso di responsabilità e del limite». Poi si è rivolta a Mattarella: «Cicerone ci ammonisce a non abbandonare il proprio posto di guardia nella vita» e ha rinnovato l’impegno dei magistrati ad agire «nella piena fedeltà alla trama dei valori costituzionali».

L’accenno più politico, invece, è arrivato dal procuratore generale Piero Gaeta, il quale ha parlato di un’unica giurisdizione: «Ho notevole difficoltà teorica» «a separare il requirente di legittimità dalla complessiva considerazione della funzione giurisdizionale in cui opera».

In altre parole, a considerare giudici e pubblica accusa separati, almeno in Cassazione. E questo perché il requirente di legittimità è «figura autenticamente dialogica e cooperativa rispetto al decisore, perseguendo, con la difesa, il “risultato di giustizia”». Parole cesellate e formalmente riferibili alle funzioni nomofilattiche della Corte, ma da interpretare.

Il ministro Nordio, silente, ha ascoltato anche l’auspicio di «dialogo – doveroso e scevro da pregiudizi – con tutti gli altri poteri dello Stato». Parole rilevanti proprio perché arrivate dai vertici della magistratura di legittimità, pronunciate davanti al Quirinale e nel momento più delicato per la riforma.

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