In questi giorni, fra non poche tensioni e contrapposizioni, si sta affrontando in parlamento la riforma della Giustizia proposta dal ministro Marta Cartabia, che ha lo scopo dichiarato di rendere i tempi della giustizia italiana, finalmente, compatibili con quelli di un paese europeo evoluto.

Del resto, è proprio l’Europa a chiedercelo per accedere ai finanziamenti del Recovery fund. Sarebbe un’occasione storica per risolvere un problema incancrenito da decenni, che ci pone agli ultimi posti al mondo, non solo in Europa, nella classifica della efficienza della Giustizia. La legge di riforma governativa, su questa questione, è animata da ottime intenzioni. Si pone degli obbiettivi giusti, da tutti condivisi e cioè concludere gli appelli in due anni ed i ricorsi in cassazione in un anno. Ma ha un limite evidente: non individua un percorso adeguato che consenta di raggiungere gli obbiettivi che si prefigge.

Oggi questi tempi, specie i due anni per concludere il giudizio di appello, con la procedura ed i mezzi dati, sono del tutto irrealistici, specie nelle sedi giudiziarie più grandi. E un ulteriore problema che pone la riforma è che, a fronte della previsione di questi tempi serrati, in sé del tutto condivisibili, ma allo stato inattuabili, è prevista, in caso di un loro mancato rispetto, la sanzione della improcedibilità che, in buona sostanza, altro non è che la cancellazione del processo e quindi del reato per decorso del tempo. E tale sanzione si abbatte non – come scioccamente pensa certa corrente di pensiero – sulla magistratura, ma sulla collettività, e sulle vittime dei reati, anche gravissimi, che con la dichiarazione di improcedibilità non avranno giustizia in una percentuale altissima di casi.

È mia convinzione, invece, che i problemi si risolvono non con roboanti previsioni programmatiche, ma capendo, in primo luogo, da dove nascono. E allora la prima domanda che dobbiamo porci, è la seguente: qual è la causa della lentezza dei nostri processi? Soltanto dopo avere chiarito ciò, possiamo prevedere i rimedi e le messe a punto.

E solo poi, si potranno mettere tutti i “paletti” necessari, fino a prevedere, per i casi patologici, sia la estinzione per improcedibilità dei processi sia – ove necessario – una sanzione per i giudici negligenti e ritardatari. Prevedere termini così rigorosi, senza però modificare i percorsi dei processi, senza velocizzare le regole, eliminando passaggi superflui, significa solo – come è stato osservato – mandare al macero decine di migliaia di procedimenti frustrando il diritto alla giustizia ed alla verità, delle vittime e della collettività.

Ragionare sui dati

Ragionando, allora, sui dati, senza pregiudizi, risulta che il problema della lentezza dei processi non risiede né nella scarsa produttività di giudici italiani – che sulla base delle statistiche europee sono, mediamente, fra quelli che emettono più sentenze – né nello scarso di numero di magistrati (che in Italia, sono perfettamente nella media europea, Germania a parte). Dunque ciò che frena il nostro sistema è altro: cioè il percorso processuale, evidentemente troppo rigido, lungo e tortuoso, per arrivare ad una sentenza definitiva. Dobbiamo allora confrontare queste nostre regole processuale con quelle vigenti negli altri paesi europei, tenendo conto altresì della Costituzione e degli accordi internazionali a cui ci siamo vincolati, per verificare dove si annidano le nostre anomalie e quindi lentezze processuali.

Limiterò le mie osservazioni a due aspetti del processo che ritengo essenziali per la sua velocizzazione. E si badi, parlo di riforme a costo zero in quanto non necessitano di alcun intervento sulla macchina giudiziaria, né sui mezzi e sui fondi a sua disposizione. Il primo aspetto riguarda i processi in primo grado: per recuperare efficienza, sarebbe di enorme giovamento eliminare la regola oggi vigente in base alla quale, basta che un giudice del tribunale cambi durante il processo (a causa di un trasferimento, di una maternità, di una malattia) che questo deve ricominciare daccapo. Lascio al buon senso di tutti la valutazione di questa regola, che appare la quintessenza del nostro autolesionismo istituzionale, segnalando, tuttavia, che decine di migliaia di processi si sono dovuti ripetere più volte per questa ragione ed evidenziando altresì che neanche la Corte Costituzionale ritiene tale regola vigente indispensabile e necessaria.

Il secondo aspetto riguarda i giudizi di appello: è questo il vero nodo della questione giustizia italiana. Non a caso è proprio in appello che si verificano la maggiore parte delle prescrizioni dovute alla “lentezza” del processo. Il motivo è presto detto: il nostro sistema prevede una possibilità sostanzialmente illimitata di appello ed altrettanto illimitata di ricorso in cassazione.

Dunque in Italia abbiamo tre gradi di giudizio per tutto, per qualsiasi reato: dall’omicidio alla corruzione, fino al piccolo abuso edilizio. E tutti i condannati, giustamente, per qualsiasi reato anche di minimo rilievo, fanno prima appello e poi ricorso in Cassazione, sperando di procrastinare i tempi o di lucrare una prescrizione.

Questo meccanismo ha determinato, ad esempio, che presso le Corti appello di Roma e Napoli pendano attualmente oltre 55.000 procedimenti ciascuna. In ciascuna di queste Corti lavorano al settore penale un numero significativo di Magistrati, intorno ai 60/65. Attualmente di media ognuno di questi Magistrati produce circa 250 sentenze all’anno. Quindi, moltissime. Tuttavia per eliminare l’arretrato e stare al passo con i processi sopravvenuti, ciascun magistrato di queste Corti dovrebbe decidere (e scrivere) circa 900 sentenze all’anno.

E siccome questo è semplicemente impossibile, con la nuova regola cartabiana della improcedibilità, si determinerà certamente la morte di decine di migliaia di processi, non essendo possibile chiudere in due anni tutti i procedimenti pendenti e quelli che via via, con le attuali regole, affluiranno presso le corti di appello. E così per garantire tutti, anche chi non ne ha bisogno, finiamo con il non garantire nessuno.

Usare la Costituzione

Sul punto è da dire, in primo luogo che la nostra Costituzione non prevede tre gradi di giudizio come “obbligatori”, ma solo due: primo grado e Cassazione. Quanto agli accordi internazionali da noi sottoscritti, quello pertinente al nostro caso è l’art 2 del 7° protocollo aggiuntivo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che, non solo, prevede come necessari solo due gradi di giudizio, ma, espressamente, prevede che per i reati meno gravi non sia obbligatorio neanche il secondo grado di giudizio.

Ebbene da noi, pur mantenendo per i casi “seri” non due, come pure prevede la Convenzione e come prevede la Costituzione, ma ben tre gradi di giudizio, per risolvere il problema della lunghezza esasperante dei processi sarebbe sufficiente seguire le regole non di uno Stato forcaiolo o autoritario, ma quelle della Convenzione Europea detta a tutela dell’imputato, che consente di eliminare l’appello per tutti i reati di minore gravità (che sono proprio quelli che ingolfano le nostre Corti). Rimanendo a tutela del condannato, comunque, l’impugnazione della sentenza in Cassazione. Ciò consentirebbe al nostro sistema di recuperare l’efficienza che gli consentirebbe di metabolizzare senza danni anche la regola della improcedibilità.

Gli appelli così sarebbero più che dimezzati e, comunque, di un numero tale da consentire una trattazione di tutti i casi di rilievo in tempi accettabili. Sicuramente in due anni. Ed è agevole, poi, redigere un elenco di tali reati “meno gravi” – che non richiedono la celebrazione dell’appello – potendo questo elenco coincidere con tutti i reati puniti con pena non superiore a 4 anni, per i quali lo stesso legislatore, considerandoli tali, ha previsto, come sanzione, misure alternative alla pena detentiva o addirittura la loro estinzione con messa alla prova.

Esempio Norvegia

Concludo con un esempio che sicuramente sarà apprezzato dalla nostra ministra della Giustizia, che giustamente porta ad esempio i paesi garantisti che praticano un diritto penale “mite”. Tutto ciò ci porterebbe a un sistema di appelli e ricorsi perfettamente in linea con gli standard europei, lasciando finalmente in soffitta meccanismi obsoleti e farraginosi.

Pochi mesi fa mi trovavo a parlare delle lentezze del nostro sistema processuale con un collega, procuratore della città di Bergen in Norvegia: sentendo quello che gli spiegavo sul nostro sistema delle impugnazioni delle sentenze, rimase sconcertato. Mi spiegò che da loro, in Norvegia – e cioè in uno dei paesi più civili di Europa, con un sistema di garanzie molto più avanzato del nostro – dopo un processo di primo grado che offre all’imputato tutte le garanzie, viene ammesso all’appello una percentuale di processi che oscillava fra il 5 e 10 per cento delle sentenze in primo grado.

Possiamo, allora, davvero pensare di potere continuare ad avere un sistema processuale che consentendo una illimitata possibilità di ricorsi, neppure i civilissimi e ricchi norvegesi ritengono sostenibile e praticabile? Penso proprio di no. Ed allora, come diceva Michele Apicella, protagonista di “Bianca” di Nanni Moretti: continuiamo così, facciamoci del male…

© Riproduzione riservata