Ho aspettato con profonda suspence le dichiarazioni della nuova ministra della Giustizia Marta Cartabia sulla riforma Bonafede che sospende la prescrizione dopo il primo grado di giudizio.

Avevo immaginato che ci sarebbe stata una scelta più drastica di eliminazione di una legge con evidenti profili di incostituzionalità, invece l’aspettativa è stata ampiamente tradita.

Il prodotto della mala gestio non è stato immediatamente defenestrato, dunque per ora la riforma della prescrizione rimane sospesa, in attesa di venire trattata nel più complesso quadro di una riforma del processo penale.

Ci si interroga su quando verrà conferita l’ennesima delega al governo per mettere mano al processo penale e la speranza è che non arrivi allo scadere della legislatura e che sia in grado di rispondere alle reali esigenze di riforma del sistema giustizia.

Tuttavia, la scelta della ministra di salvare – almeno momentaneamente – la riforma Bonafede sembra più una mossa politica che un’organizzazione istituzionale dei lavori del Governo.

Come se consentire il perdurare nell’ordinamento di una norma potenzialmente contraria alla Costituzione e ai diritti fondamentali dell’uomo non sia una priorità.

Questo atteggiamento di pericolosa tolleranza conduce a delle riflessioni inevitabili.

Ci si chiede come sia possibile che correggere gli effetti non solo giuridici ma anche politici e sociali di alcune riforme nate storpie non si un obiettivo impellente per il nuovo governo.

Una tolleranza anche temporanea della situazione, infatti, appare ai miei occhi come un’occasione persa di dimostrare che la missione dello Stato di diritto è quella di dare giustizia e non vendetta, garantendo un giusto processo a tutti i cittadini.

Questo limbo di attesa spaventa, perché fa passare l’idea pericolosa che si possano anche solo temporaneamente tollerare le storture del sistema e la compressione dei diritti fondamentali. E’ il concetto di fondo, a prescindere dal verificarsi concreto del suo effetto, ad essere sbagliato ab origine.

Lo spettro che aleggia ormai da anni, e che non è stato ancora esorcizzato è quello di una tendenza giustizialista, rafforzata spesso dalla difficoltà per l’opinione pubblica di comprendere alcune dinamiche processualpenalistiche.

Proprio questo cortocircuito è stato la causa anche della prassi distorta - soprattutto a fronte di situazioni emergenziali – di una legislazione di emergenza, che però invece di avere effetti solo temporanei rimane annidata per anni nell’ordinamento.

Un esempio per tutti è il regime del 41 bis – quello del carcere duro per i detenuti di reati gravi come la mafia e il terrorismo - nacque per far fronte ad un temporaneo scenario emergenziale ed è invece diventato più longevo di tante misure adottate per essere perduranti nel tempo.

La deriva giustizialista

La paura che il dibattito penale si riduca ad un problema di prescrizione è tanta e comprensibile: è giusto pensare ad una riforma penale di più ampio respiro, ma allora in questa sede bisognerebbe fare i conti anche con la tesi non veritiera che la responsabilità delle lungaggini del processo penale sia di avvocati e imputati, che vengono così ritenuti responsabili dell’ingiustizia del sistema.

Chi non conosce le aule di giustizia ma solo i legal-thriller americani in televisione pensa che la difesa punti alla prescrizione facendo testimoni a difesa superflui, proponendo istanze dilatorie, chiedendo rinvii pretestuosi.  Non sa cosa accade realmente nel corso delle istruttorie italiane.

Non sa che la maggior parte di processi si prescrivono in fase di indagine, che alcune procure adottano la prassi distorta di posticipare l’iscrizione formale delle notizie di reato, mantengono indagini contro ignoti nonostante abbiano già identificato e proceduto a far eleggere domicilio all’indagato.

Proprio questo comporta che il processo vero e proprio in contraddittorio tra le parti venga celebrato anni dopo i fatti, costringendo gli imputati a difendersi prima dal processo e dagli effetti del tempo, della memoria, dalle dimenticanze dei propri testimoni, dalle proprie dimenticanze, senza poter nel frattempo andare avanti con la propria vita.

La mancanza di risorse economiche adeguate che consentano di implementare il sistema giustizia, di ampliare l’organico di magistrati, di cancellieri, di fonici trascrittori, di strumenti informatici (e di comprare risme di carta, perché in molti tribunali manca la carta) non può ricadere sul cittadino.

Lo Stato Italiano non ha risorse per consentire un giusto processo in tempi brevi? Allora abdichi il suo potere e rinunci a perseguire un cittadino. Si fermi di fronte alla propria incapacità di garantire il rispetto del diritto alla difesa e soprattutto della finalità rieducativa della pena.

Dopo decenni dai fatti oggetto del processo, si arriva a comminare delle pene a persone completamente differenti da quelle che hanno commesso il delitto per cui sono processati. Si paralizzano le vite delle persone imputate per anni. 

Non si pensa che un imputato sia una persona con una vita da continuare a condurre e che invece rimane sospesa in quei 10, 15 anni, 20 anni. E non si pensa che quest’imputato potrebbe essere innocente o - se colpevole – dovrebbe avere diritto ad una riabilitazione e un reinserimento nella società una volta scontata la pena.

Nel film documentario In the same boat, alcuni tra i più autorevoli studiosi internazionali (come Pepe Mujica,  Tony Atkinson, Zygmunt Bauman, Serge Latouche, Erik Brynjolfsson, Mariana Mazzucato e altri) si interrogano su temi come la globalizzazione, l’avvento della robotica, l’immigrazione: tutti processi in atto nelle grandi economie avanzate che indubbiamente potranno trasformare il mercato del lavoro, la distribuzione del reddito ma anche e soprattutto i sistemi di sicurezza sociale.

Riflessioni quest’ultime che conducono a trattare temi come quello della giustizia e della riforma del processo in stretta connessione con l’obiettivo primario di ogni pubblica amministrazione: perseguire il benessere dei cittadini.

Lo scenario di un’umanità che “viaggia su una stessa barca” e che sta attraversando una fase estremamente critica che necessariamente dovrà portare ad un cambiamento radicale sembra anticipare riflessioni fortemente attuali a livello mondiale.

Se non si comprende che l’umanità è sulla stessa barca, che i sistemi e le istituzioni sono necessari a garantire il perdurare della civiltà, la pace tra i popoli, perseguendo l’unico scopo precipuo che è il benessere dei cittadini, ogni ramo delle istituzioni viene svuotato del suo significato.

Se il cittadino non comprende che la giustizia non è vendetta per le vittime e che domani potrebbe essere lui imputato anche per un reato bagatellare e trascorrere la propria esistenza in attesa di una sentenza, il tema della compressione dei diritti dell’imputato nel processo non sarà mai una priorità.

Se non si interviene con un’adeguata operazione di sensibilizzazione, di istruzione, che miri a consentire a tutti i cittadini di comprendere cosa sia veramente il processo penale, temo che la politica bisognosa di consensi continuerà ad avere tendenze giustizialiste.

Se non dirigiamo il timone di questo vascello verso la retta via, la conseguenza sarà quella di perdersi e naufragare.

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