Tra i ricordi di Alfonso Sabella, giudice a Roma e cacciatore di latitanti nella Palermo post stragi, uno ci porta indietro nel tempo alla strage di Portella della Ginestra, Primo maggio 1947.

Un ricordo inedito e che mette la mafia, con il sistema di cui faceva parte, al centro di quella mattanza. Un ricordo che spunta mentre Sabella racconta le lacrime nel giorno dell’arresto di Giovanni Brusca e la collaborazione con la giustizia.

Sabella, lei ha arrestato e seguito il pentimento di Brusca, cosa ha provato quando ha saputo della liberazione del pluriomicida, che aveva ucciso Giovanni Falcone?

Giovanni Brusca ha scontato interamente la sua pena, quindi meritava di essere scarcerato. Una pena ridotta in base a una legge dello stato che sul piano etico è una legge pessima, immorale.

Noi stato stipuliamo un patto con un criminale affinché questo faccia l’infame e tradisca i suoi compagni. Pensiamoci bene, è una legge veramente immorale. La cosa paradossale è che più tu sei criminale, più a me interessa avere le tue dichiarazioni, più tu vali per me. La collaborazione di Giovanni Brusca è servita a cancellare dalla storia lo stragismo corleonese perché lo Stato lì ha vinto.

La scarcerazione di Brusca è un’altra vittoria dello stato perché lo stato non usa le armi della mafia, usa le armi dello Stato, le armi del rispetto delle regole.

Chi è stato Giovanni Brusca?

L’icona del male. Giovanni Brusca era quello che aveva premuto il telecomando della strage di Capaci, era quello che aveva gestito il sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore Santino, e dato l’ordine di ucciderlo, era il responsabile di decine di omicidi. Ne ha raccontati circa 200, non ricordava più nemmeno quelli che aveva commesso.

Ricorda l’arresto?

È stato un momento importante nella mia vita, liberatorio. Ho capito con il tempo che lo avevamo sopravvalutato, gli avevamo dato un ruolo superiore nella strategia corleonese mentre Brusca praticamente era un esecutore di ordini.

In ogni arresto di latitante c’è un dettaglio che tradisce i boss.

Avevamo individuato la zona dove si trovava Brusca, ma non avevamo la precisione di localizzazione degli strumenti moderni. Lui aveva un telefono che utilizzava per trenta minuti, tutte le sere, alle 20. Così ci inventiamo una cosa.

Alle 8 di sera prepariamo un poliziotto su una moto smarmittata nella zona localizzata, quando Brusca comincia a parlare, lui ha l’ordine di muoversi. Si muove e comincia a girare per le strade sgasando, quando noi abbiamo il ritorno forte in cuffia capiamo e interveniamo. C’erano 200 poliziotti ad Agrigento che non sapevano neanche perché fossero lì. Alla fine lo abbiamo preso.

E cosa ha provato?

Ho pianto come non avevo mai pianto in vita mia, dalla commozione, dalla gioia, un pianto di liberazione reale. Le dico un’altra cosa. In quegli anni lo stato era unito.

Quando non riuscivamo a prendere Brusca mi avevano segnalato uno strumento informatico di ultima generazione che riduceva a duecento metri il segnale. Costava quasi un miliardo di lire, erano tanti soldi.

Chiamo il ministero, e un sottosegretario, appena saputo che le ricerche erano per Brusca, mi disse di comprarlo senza problemi. Non servì, ma lo stato allora volle combattere la mafia stragista. Seriamente e tutti insieme.

Brusca decide di pentirsi, all’inizio però provò a fare il doppio gioco?

Esattamente. Il 23 maggio 1996 mi chiamano dal carcere e mi dicono questa frase: “Comandi dottore, il bambino ha bisogno d’affetto, comandi dottore”. La prima cosa che ho pensato non è stata da magistrato, ma da uomo.

Pensai che avrei dovuto stringergli la mano, a lui, allo stragista. All’inizio ci fornì diverse polpette avvelenate, aveva l’obiettivo di destabilizzare e distruggere così la legge sui pentiti, ma lo scoprimmo e poi ha iniziato una collaborazione fondamentale per le indagini, per chiudere processi, per arrestare latitanti.

C’è qualcosa che ricorda e che non ha mai detto?

Sì. Giovanni Brusca aveva un padre, Bernardo, capomafia al 41 bis. Mi chiese di incontrarlo perché stava morendo, organizzo un confronto anche perché mi dava l’occasione di verificare alcune dichiarazioni discordanti. Carcere di Rebibbia. Piccola premessa, io avevo uno zio che non ho mai potuto conoscere, il fratello di mio padre.

Faceva il carabiniere ed era stato ucciso dalla banda di Salvatore Giuliano, il criminale responsabile della strage di Portella della Ginestra, Primo maggio 1947, quando furono trucidati innocenti che festeggiavano la Festa dei lavoratori (14 morti, 27 feriti, ndr). Solo che c’era più di qualche sospetto che non fu solo banditismo. Torniamo a Rebibbia. Entro e trovo Bernardo Brusca.

Inizia un dialogo in siciliano, gli dico “L’altro giorno sono stato a Piana degli Albanesi, dove hanno fatto la strage di Portella” e lui taglia corto “Belle terre” e poi parla degli ulivi. Ci riprovo, stessa risposta. Passa qualche minuto, entra il figlio. Senza girarsi, Bernardo Brusca mi guarda e dice: “A 17 anni quella montagna di Portella della Ginestra me la salivo e me la scendevo che era un piacere”.

Ecco, Bernardo Brusca aveva 17 anni quando ci fu la strage di Portella. Vede, io non posso dire che me lo ha detto che c’erano i mafiosi, ma io l’ho capito benissimo, meglio di una sentenza definitiva. Quel giorno a sparare contro i lavoratori c’erano anche i mafiosi e il sistema che li proteggeva.

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