Tensioni sulla circolare sul funzionamento degli uffici. I procuratori la smontano. Il sospetto al Consiglio: «Qualcuno vuole provocare, non capisce che così ci condanna tutti»
Tira aria pesante in Antimafia, che vive forse il suo periodo più difficile della storia recente, con procure una contro l’altra in delicate inchieste sui mandanti delle stragi – da quelle nel continente a via D’Amelio – e le dimissioni improvvise del procuratore aggiunto Michele Prestipino, dopo (ma non a causa, scrive lui) una indagine a suo carico aperta a Caltanissetta.
In questo clima di veleni, la super procura guidata da Gianni Melillo ha reagito attaccando. Un colpo di coda inconsulto, di cui ha fatto le spese il Csm, che per una volta si presenta compatto nel lasciar trapelare profondo fastidio nei confronti dei pm antimafia.
Se loro hanno i loro problemi, è il ragionamento, non provino ad allontanarli facendo gli elefanti nella cristalleria della politica giudiziaria. Che, del resto, naviga già in acque agitate senza bisogno di quello che è ormai un nuovo scontro tra toghe.
I fatti
I fatti appaiono quantomai banali, se si leggono senza il filtro del tesissimo contesto in cui avvengono. Nel luglio scorso, il Csm ha approvato a maggioranza (con voto contrario dei laici di centrodestra e l’astensione polemica del vicepresidente Fabio Pinelli) una circolare sul funzionamento delle procure.
Una rivoluzione copernicana non facile da digerire, ma che nell’intento del Consiglio è stata un modo per avvicinare gli uffici di procura a quelli del tribunale e restituire trasparenza sul loro funzionamento. In particolare, la circolare introduce un meccanismo tabellare per i criteri di assegnazione dei nuovi procedimenti, riduce i poteri dei capi delle procure e fissa alcune procedure organizzative interne.
A dieci mesi di distanza, la Settima commissione aveva fissato un incontro il 13 maggio, per un confronto con i vertici delle procure. Il 29 aprile, però, arriva al comitato di presidenza del Csm una durissima lettera, sottoscritta dai 26 procuratori distrettuali antimafia e dallo stesso Melillo, in cui si mettono nero su bianco tutte le critiche alla circolare.
«Rallenta gravemente le attività organizzative», introduce «formali e burocratici adempimenti fini a se stessi». In sintesi, «sembra che il Csm sia andato oltre rispetto alla cosiddetta tabellarizzazione delle procure che il legislatore aveva previsto». Non una posizione nuova – le procure antimafia avevano già espresso perplessità sulla circolare – ma inedita nei toni. Infine, la lettera viene resa pubblica sul Foglio. Risultato: riunione del 13 maggio cancellata e rinviata a data da destinarsi.
Le conseguenze
Che questo non sia un semplice scontro sulla tabellarizzazione, è chiaro. A dare immediatamente la chiave di lettura politica è il consigliere togato indipendente, Andrea Mirenda, che è favorevole alla separazione delle carriere. La lettera di quelli che lui chiama «il partito dei procuratori» farebbe emergere «l’inconsistenza dello zoccolo ideologico su cui si fonderebbe la sbandierata cultura unitaria della giurisdizione» e che giustifica l’unità delle carriere di giudici e pm. In altre parole: i pm antimafia che si muovono contro il Csm sono una perfetta sponda – anche mediatica – per la riforma Nordio.
A quarantotto ore dai fatti, sia l’Antimafia che il Csm vogliono far calare il silenzio sul caso, ma le distanze rimangono incolmabili. Fonti del Consiglio vedono un disegno dietro la lettera, che è arrivata a freddo, quando la riunione era già stata fissata. Perché allora volerla anticipare in questo modo, con toni così pesanti? Lo sgarbo appare voluto: la lettera è indirizzata al Comitato di presidenza e non alla Settima commissione che aveva organizzato l’incontro. Poi qualche manina l’ha resa pubblica, portando fuori un confronto che doveva rimanere interno.
«Una provocazione voluta da alcuni, che si sentono soggetto istituzionalizzato», è l’analisi di una fonte togata, che invita a riflettere sulle 26 firme più quella di Melillo. «E questi alcuni non capiscono che così facendo, continuando a rivendicare distinguo tra procuratori e giudici, non fanno il bene di nessuno». Il sottinteso è leggibile: la crisi anche pubblica della magistratura, dall’hotel Champagne in poi, ha avuto come snodo le procure che, se non ricondotte ad un contesto giurisdizionalizzato e trasparente, rimangono porti franchi sempre a rischio di personalizzazione.
Opposta la visione in Antimafia, da cui trapela stupore. «I procuratori conoscono i problemi organizzativi e hanno ritenuto di metterli nero su bianco, in ottica di confronto», è il ragionamento. Nessuna volontà polemica, l’invio al Comitato di presidenza «è solo una procedura formale».
Tuttavia un distinguo di merito emerge: procuratori e giudici sono diversi, perché i primi non sottostanno al principio del giudice naturale previsto dall’articolo 25 della Costituzione. Impossibile e anzi una forzatura quindi, secondo l’antimafia, che un tribunale una procura funzionino in modo simile. «Ma questo non ha nulla a che fare con la separazione delle carriere», viene spiegato. Eppure, per una eterogenesi dei fini, l’antimafia rischia di rafforzare la riforma più invisa dalle toghe. O meglio, questo si teme a palazzo Bachelet: che l’aggressività miope del leone ferito condanni tutto il branco.
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