Gran parte delle polemiche intorno alla sentenza che ha condannato Turetta per il sequestro e l’omicidio di Giulia Cecchettin sono state riservate al mancato riconoscimento della aggravante della “crudeltà”.

Sebbene tale esclusione non gli abbia evitato una condanna all’ergastolo – la pena più severa che il nostro ordinamento conosca – l’attenzione si è concentrata su alcuni passaggi della sentenza, secondo cui, in estrema sintesi, un numero elevatissimo di coltellate (75) non sarebbe, alla luce di come si sono svolti i fatti, necessariamente sinonimo di “crudeltà”, potendo essere dovuto anche alla “inesperienza” di Turetta.
La questione giuridica relativa al riconoscimento o meno dell’aggravante riaccende il dibattito sull’importanza di come “comunicare” la giustizia penale; tema che non riguarda solo i professionisti della comunicazione, ma anche gli stessi giudici chiamati a scrivere sentenze così importanti (i quali, ripensandoci, si sarebbero forse risparmiati qualche espressione infelice o fraintendibile).
Il tema di fondo – su cui il ruolo degli organi di informazione è essenziale – è che non si potrà mai maneggiare la cronaca giudiziaria con gli stessi strumenti comunicativi con cui i giudici sono chiamati ad applicare la legge: se nessuno di noi potrà mai sostenere che Turetta non sia stato, nei fatti, spietatamente crudele, bisogna però accettare la possibilità che – giuridicamente parlando – possa non esserlo stato (o quantomeno bisogna accettare che se ne possa discutere).

E questo perché la definizione di “crudeltà” giuridicamente rilevante non è quella che troviamo sulla Treccani («l'essere privo di compassione: ferocia, malvagità, perfidia, spietatezza»), ma quella di chi si sia «accanito gratuitamente e violentemente sulla vittima, trascendendo la mera volontà di ucciderla, senza che ciò fosse funzionale al delitto».

Dunque, i giudici, nel momento in cui erano chiamati ad applicare la legge, non dovevano chiedersi se l’imputato fosse stato effettivamente spietato (altrimenti la risposta sarebbe stata banale), ma se lo stesso, nel momento in cui stava commettendo il reato, intendesse “solo” uccidere la vittima (si fa per dire) o anche provocarle sofferenze gratuite ed ulteriori.
Lungi dal voler dare un giudizio sulla correttezza della valutazione – che verrà eventualmente sindacata dai giudici di appello – si intende dire che non tutto ciò che accade nelle aule di giustizia può essere spiegato con i normali strumenti della comunicazione; o meglio, dovrebbe, ma fornendo all’opinione pubblica le giuste coordinate e informazioni.
D’altronde, se si ragionasse in questi termini, ogni omicidio volontario non sarebbe per definizione anche crudele? Sarebbe forse ammissibile fissare una “soglia di coltellate” al di sotto delle quali la condotta potrebbe non essere definita crudele? E perché 5 coltellate (magari profonde e su organi vitali) dovrebbero essere considerate meno crudeli di 30 coltellate (magari leggere e su organi non vitali).
A queste domande ha risposto ormai da anni – ben prima di Turetta – la Corte di cassazione ricordando che, lungi dal dover guardare al solo dato numerico, sia indispensabile un esame delle modalità complessive dell’azione e dell’elemento psicologico in capo all’autore.

Quindi, no, non è un’eresia chiedersi se Turetta sia stato davvero “crudele”.

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