La disciplina dell’accesso alla professione di avvocato non può ridursi soltanto alla disciplina delle modalità di svolgimento dell’esame, che pur deve essere modificato, ma deve essere compresa in una visione complessiva che parta dal percorso universitario e che comprenda la formazione del praticante.

Se l’obiettivo è, come è giusto che sia, formare un avvocato all’altezza dei compiti cui dovrà attendere per la tutela dei diritti dei cittadini, è fondamentale guardare all’accesso alla professione forense nel suo complesso. L’esame è il momento conclusivo di un percorso formativo che ha come obiettivo quello di formare il futuro avvocato anche dal punto di vista dello sviluppo di conoscenze, oltre che di competenze e, soprattutto, anche dal punto di vista di una profonda sensibilità verso l’irrinunciabile rilievo costituzionale e sociale della professione forense. 

Occorre garantire, nell’accesso alla professione, elevati livelli di formazione, consentendo al praticante avvocato di sviluppare al tempo stesso conoscenze e competenze finalizzate all’ingresso nella comunità professionale. Merito ma anche una effettiva e consapevole motivazione sono alla base della scelta di una professione profondamente cambiata rispetto al passato, sia in relazione alla consistenza numerica della comunità professionale, sia rispetto alla crescente complessità delle questioni – di merito, di metodo, di etica e deontologia professionale – che l’avvocato è chiamato ad affrontare nello sforzo quotidiano di assicurare difesa e protezione a chi a esso si rivolge.

Non basta cambiare le modalità di accesso

La disciplina dell’accesso alla professione forense ha rilievo strategico nella definizione della fisionomia dell’avvocatura in un tempo di grandi cambiamenti, come quello che stiamo attraversando. Cambiamenti che investono non soltanto i tratti fondamentali della cultura giuridica e del suo complesso rapporto con la funzione professionalizzante degli studi giuridici, ma che sono allo stesso tempo fortemente legati alle trasformazioni del lavoro autonomo e professionale e, più in generale, all’impatto della precarietà delle condizioni di lavoro sulle scelte e sulle concrete condizioni di vita dei praticanti e dei giovani avvocati.

In questa prospettiva, è fondamentale ribadire che l’accesso alla professione non può riguardare unicamente le modalità di svolgimento dell’esame di Stato, ma deve anche il più ampio contesto della formazione del praticante e del giovane avvocato. 

Proprio in questa direzione si mosse il legislatore del 2012, ridisegnando il tirocinio in modo fortemente innovativo e, soprattutto, privilegiando la necessaria continuità tra il percorso formativo universitario, la successiva specializzazione/professionalizzazione delle competenze e delle conoscenze e l’esame che di tale processo unitario è la fisiologica conclusione.

Una riforma globale dell’accesso alla professione forense non può che rappresentare anche l’occasione per rivalutare nella pratica che cosa, della Legge 247/2012, non abbia funzionato. 

Il tirocinio

Si pensi, in questa prospettiva, all’integrazione fra tirocinio e ultima fase degli studi universitari, che si esprime nella possibilità di anticipare un semestre di tirocinio già nel corso dell’ultimo anno di corso; ma anche al potenziamento – del tutto inedito – delle interazioni fra tirocinio ed altri tipi di esperienze (come il tirocinio presso gli uffici giudiziari o l’integrazione con lo svolgimento di esperienze all’estero). Ancora, si pensi al rilievo centrale assunto dalla formazione all’interno del tirocinio, con la previsione della obbligatorietà della frequenza di corsi rivolti non solo alla preparazione dell’esame, ma alla formazione in senso più ampio. Tali innovazioni, peraltro, non superano – ma anzi rafforzano, integrandosi armoniosamente con esso – il rilievo centrale che, nel percorso formativo, mantengono la frequenza dello studio legale e il rapporto con il dominus.

Le innovazioni recate – in materia – dalla legge n. 247/12 confermano che l’obiettivo del percorso di formazione, culminante nella disciplina dell’esame di stato, è allora la formazione di avvocati non solo capaci e con un sufficiente grado di familiarità con la concreta esperienza professionale; ma anche consentire, nei limiti del possibile, che accanto allo sviluppo di conoscenze e competenze specialistiche e settoriali, il giovane avvocato resti anzitutto un giurista il più possibile colto, capace di cogliere le connessioni tra i diversi settori dell’esperienza giuridica e, soprattutto, la loro relazione profonda con le dinamiche economiche e sociali, oltre che la relazione stessa tra la professione forense e la specifica responsabilità che, per l’avvocato, deriva dall’avere a che fare quotidianamente con istanze di giustizia sostanziale e, in ultima analisi, con l’effettiva protezione dei diritti fondamentali.

la riforma parte dall’università

Una riforma necessaria e completa deve saper disegnare, sin dal percorso universitario, un iter che sia di vero e reale indirizzo e di preparazione al successivo tirocinio da svolgere. Soltanto in tale prospettiva può essere inquadrata una diversa disciplina della formazione e dell’abilitazione dell’avvocato, sia per quel che riguarda la durata del relativo percorso, sia per quel che riguarda la definitiva consacrazione abilitativa all’esercizio della professione.

Sono queste alcune delle istanze che il Consiglio nazionale porterà all’attenzione dei tavoli con il ministero della Giustizia e anche con il ministero dell’Università. 



 

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