È stato emanato l’ennesimo decreto del presidente del Consiglio dei Ministri (Dpcm). Ancora una volta, prima che potessero verificarsi gli effetti di quello precedente (18 ottobre), il vertice dell’esecutivo è intervenuto con misure più restrittive .

In dodici giorni, tre Dpcm. Il metodo è lo stesso utilizzato nei mesi iniziali della pandemia, quando l’emergenza da Covid-19 si era improvvisamente abbattuta come uno tsunami.

Oggi l’evento - la seconda ondata di contagi - non è inatteso. Quindi, non solo è arduo giustificare l’attuale “affanno” da decreti, ma non ci sono più alibi cui appigliarsi: data l’esperienza dei mesi scorsi e le previsioni per quelli futuri, serviva essere preparati.

Il susseguirsi di provvedimenti, in un breve intervallo di giorni, rivela due profili preoccupanti. Innanzitutto,  prima di disporre nuove restrizioni il governo non verifica se quelle precedenti siano state insufficienti: di conseguenza, mancano gli elementi per poter valutare che ciascuna delle nuove limitazioni sia davvero necessaria (non semplicemente utile), proporzionata rispetto allo scopo e meno penalizzante possibile, anche a seguito di un chiaro bilanciamento degli interessi coinvolti.

Servirebbe, pertanto, spiegare perché ci si aspetta che certe misure, dotate di una certa intensità, e non altre, siano le più adeguate. In secondo luogo, il presidente del Consiglio opera nuovi interventi normativi senza comprovare che essi riguardino aree, circostanze e attività per le quali sia indispensabile un’azione più incisiva e stringente che in ambiti diversi.

Non c’è alcuna trasparenza sui dati epidemiologici di riferimento, ammesso vi siano. 

Punirne cento per educarne uno

Passando alle norme, la confusione regna sovrana, ancora una volta. Circa le palestre, la settimana scorsa Conte aveva minacciato che sarebbero state chiuse se qualcuna non avesse rispettato il protocollo previsto: la “ratio” di punirne cento per educarne uno.

Il ministro per lo sport, Vincenzo Spadafora, aveva sottolineato che «i gestori di palestre, piscine e centri sportivi sono stati scrupolosi nel rispetto delle indicazioni date finora, e la dimostrazione è che non vi sono focolai riconducibili a questi luoghi». Eppure, il nuovo Dpcm ne sancisce la chiusura, salvo attività all’aperto.

Non ci sono evidenze che giustifichino la nuova restrizione, ma la si dispone lo stesso. Forse la logica è che qualunque luogo di aggregazione va chiuso se reputato “superfluo”, in quanto vi si svolgono attività “dilettevoli”, anche se i protocolli sono rispettati? E può ritenersi “superflua” una categoria che impiega migliaia di persone?  

Solo raccomandazioni

È “fortemente raccomandato” di non ricevere in abitazioni private persone diverse dai conviventi, salvo che per comprovate esigenze lavorative o necessità e urgenza.

La spiegazione dello strumento della “raccomandazione” resta la stessa del Dpcm del 13 ottobre scorso: il domicilio privato è inviolabile per dettato costituzionale, ad eccezione di casi specificamente previsti, pertanto il governo poteva solo “raccomandare”. Ma inserire una raccomandazione in un atto ove dovrebbero esservi solo disposizioni di carattere cogente rischia di creare confusione.

C’è pure la “forte raccomandazione” a tutte le «persone fisiche» di non spostarsi «con mezzi di trasporto pubblici o privati, salvo che per esigenze lavorative, di studio, per motivi di salute, per situazioni di necessità».

A parte il fatto che non si vede come “persone giuridiche” possano muoversi con mezzi pubblici o privati, se una certa attività è sconsigliata si resta liberi di non seguire il consiglio, nonché di valutare i motivi per i quali ci si muove: dunque, le motivazioni indicate dal governo sono una surrettizia valutazione moralistica dell’agire personale.

“Raccomandare fortemente”, senza vietare, ha un significato politicamente chiaro: non ci si assume la responsabilità di imporre certe misure limitative, ma si raccomanda ai cittadini di rispettarle, così che sarà comunque colpa loro se le cose andranno peggio.

Il mistero dei ristoranti

Le attività dei servizi di ristorazione sono consentite solo dalle ore 5.00 alle 18.00. Serviva chiudere ristoranti e altri locali alle 18? Non si conosce la risposta, perché senza trasparenza sui dati dei contagi, in relazione ai luoghi ove essi si verificano, non si sa se nei posti indicati ci si infetta più che in altri, e dopo le 18 più che prima.

Appare palese che fissare quell’orario significa di fatto chiuderli tutti, senza assumersene le responsabilità. Peraltro, tali attività – così come altre contenute nel Dpcm - sono consentite a condizione che le regioni ne accertino la compatibilità con la situazione epidemiologica nei propri territori e individuino protocolli o linee guida per prevenire o ridurre il rischio di contagio.

La norma rimette così alle regioni la responsabilità di eventuali chiusure, e dei malumori degli esercenti, senza peraltro chiarire la relazione tra specifiche linee guida territoriali e quelle già predisposte da tempo per il settore (allegate al Dpcm del 17 maggio).

Il copione è lo stesso dei mesi scorsi, ma c’è una differenza: all’inizio della pandemia, i Dpcm di Conte godevano di “consenso” diffuso. Oggi molte persone sanno che c’era il tempo di arrivare preparati alla seconda ondata, capiscono che non si è fatto quanto dovuto – dalle terapie intensive ai tracciatori dei contagi – e non sono più disposte a pagare le inefficienze della cabina di comando. 

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