Dentro il Gop oggi esistono almeno tre anime: quella populista trumpiana, quella tecnolibertaria abbracciata dalla Silicon Valley muskiana e quella dei Repubblicani tradizionali. Ora bisogna capire quali nuovi equilibri troveranno dopo l’uscita del miliardario tech dall’amministrazione
Molti hanno sottolineato fin dalla vittoria alle presidenziali di novembre i problemi caratteriali mostrati dal presidente degli Stati Uniti e da Elon Musk. I due ego incontrollabili sono certamente una parte della faida esplosa tra i due ma esistono anche differenze ideologiche profonde. Tutto il movimento intorno alla vittoria del Trump II è stato ricondotto sotto l’etichetta della destra, o peggio di “tecnodestra” e presentato come il presunto “golpe” dell’oligarchia, ma in realtà dentro i Repubblicani esistono fin dalla campagna elettorale almeno tre anime.
Le anime
Una è quella populista del movimento Maga, l’anima trumpiana. Essa si costruisce intorno all’opposizione tra “popolo” ed “élite”, puntando su un’identità collettiva spesso definita in termini nazionali, culturali o etnici. Qui lo Stato non è visto come un nemico, ma come uno strumento da rafforzare per difendere la comunità nazionale dalle minacce esterne (immigrati, globalizzazione) e interne (élite cosmopolite, media, tecnocrati).
Donald Trump è il prototipo di questo approccio: la sua retorica anti-establishment, il protezionismo commerciale, la promessa di “Make America Great Again” e la difesa dei valori tradizionali sono tratti distintivi. Trump non esita a invocare l’intervento pubblico quando serve a proteggere i suoi elettori, anche a costo di contraddire il dogma del libero mercato a favore di un welfare più robusto e di barriere protezionistiche. La sua base sociale è composta soprattutto da chi si sente escluso o tradito dalla globalizzazione e dalle trasformazioni sociali degli ultimi decenni, un elettorato che se ne infischia del deficit di bilancio e chiede che al massimo siano i dazi e le svalutazioni del dollaro a salvare il bilancio.
C’è poi la destra libertaria di Musk, quella dei miliardari della Silicon Valley, fondamentali per spostare denaro e creare legittimazione a favore di Trump. La destra libertaria si fonda sulla centralità della libertà individuale, sulla riduzione al minimo dell’intervento statale e sulla fiducia assoluta nel libero mercato. In questa visione, lo stato è visto come un ostacolo all’autorealizzazione e all’innovazione. Elon Musk incarna questo spirito: la sua filosofia si ispira al pensiero di Milton Friedman, Ludwig Von Mises e ai grandi teorici del liberismo economico. Musk crede nella tecnologia come strumento di emancipazione, si oppone ai sindacati e a qualsiasi regolamentazione che limiti l’autonomia imprenditoriale.
La terza anima è quella dei Repubblicani tradizionali, non trumpiani, più vicini a Musk sul piano economico, contrari all’immigrazione incontrollata ma ancora convinti che l’America debba avere un ruolo nel mondo. Questa alleanza “tattica” tra Maga, repubblicani classici e tecno-libertari ha fatto forza alla coalizione e ha portato alla vittoria, trovando una convergenza comune nell’opposizione al progressismo e all’immigrazione.
Le incognite
Oggi questo patto tattico si è rotto e restano sul tavolo diverse incognite. La prima è che esistono varie tipologie di destre molto diverse tra loro la cui compattezza non è garantita una volta giunte al governo. La seconda è che piega prenderà il partito repubblicano: quale sarà l’influenza di Musk sul resto della Silicon Valley? Quale soprattutto quella sul Partito Repubblicano? Quali saranno le conseguenze per JD Vance fino a ieri molto amato dalla Silicon Valley e in corsa per la successione a Trump?
Se infatti Musk decidesse di sfidare il presidente sostenendo think tank, gruppi e candidati repubblicani non particolarmente trumpiani potrebbe nel tempo creare non pochi problemi alla Casa Bianca, soprattutto nel suo rapporto col Congresso. Si vedrà, se a seguito di questa rottura, le varie frange non populiste sceglieranno di sfidare il presidente e i Maga.
Ma soprattutto se la linea di politica fiscale scelta da Trump reggerà o meno alla prova dei mercati. Se così non fosse, sarebbe tutto carburante a favore dei suoi avversari interni. A quel punto il presidente potrebbe trovarsi nella condizione di correggere la rotta, con i fatti a dar ragione alla corrente di Musk, oppure di estremizzare ancora di più la sua linea di condotta sui dazi.
Da ultimo c’è da considerare quale sarà il futuro degli investimenti politici di Musk fuori dall’America. Negli ultimi mesi il miliardario si è molto speso per i partiti e le personalità politiche che considera vicine a lui sul piano ideologico: è il caso di Giorgia Meloni, Javier Milei, Alice Weidel. Cosa resterà di questo suo investimento ora che le strade con Trump si separano è un enigma da risolvere, anche perché questi politici si trovano a doversi allineare alla Casa Bianca, per ragioni di Realpolitik, nonostante il sostegno di Musk. Una presidenza oggi più populista e meno libertaria proprio per l’allontanamento dell’imprenditore sudafricano.
Allora i prossimi mesi ci diranno se il patron di Tesla tornerà alle sue aziende o se invece, come minaccia, lancerà un’offerta politica in America e nel mondo e, nel caso, chi saranno gli interpreti della piattaforma tecno-libertaria e dove si situeranno.
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