Domenica scorsa è stato il cinquantenario del cosiddetto Nixon shock con cui il 15 agosto del 1971 venne interrotta la convertibilità del dollaro in oro. Ma la morte ufficiale del sistema di Bretton Woods avvenne quasi 7 anni dopo.

È solo dal 1° aprile 1978 che fra le monete del mondo vige un regime di cambi liberamente fluttuanti. In quella data entrò in vigore il 2° emendamento dello Statuto del Fondo monetario internazionale che doveva essere approvato da almeno tre quinti dei Paesi membri.

La modifica era stata adottata due anni prima dal Consiglio dei Governatori del Fondo realizzando una raccomandazione seguente gli Accordi di Giamaica del gennaio 1976. L’agonia del sistema fu lunga anche perché vi furono importanti tentativi di mantenere un regime cambi fissi anche col dollaro inconvertibile, che peraltro rimaneva la moneta più domandata del mondo.

Una ferita ai cambi fissi, che sarebbe stata mortale anche senza il Nixon shock, fu l’enorme aumento dei prezzi del petrolio del 1973-4 che divaricò molto i tassi di inflazione dei paesi rendendoli incompatibili con la fissità dei cambi fra le loro valute.

La lunga crisi di Bretton Woods

President Richard Nixon holds up a dollar bill with his likeness pasted over the engraving of George Washington at the White House, March 13, 1969. At right is Vice President Spiro Agnew. The bill was given to Nixon by Nancy Thurmond (not shown), wife of Sen. Strom Thurmond (R- S.C.), as she met the president at the Congressional reception. The president joked that the altered bill might be considered "defacing the currency." (AP Photo/Bob Schutz)

La crisi del sistema di Bretton Woods datava da ben prima dell’agosto 1971. Era un sistema in cui le banche centrali si obbligavano a comprare e vendere le loro monete in modo da mantenerne molto stabili i cambi, in particolare rispetto al dollaro.

C’era inoltre l’impegno degli Stati Uniti a convertire in oro, se richiesti, i dollari detenuti nel mondo al prezzo fisso di 35 dollari per oncia. Perciò, indirettamente, tramite il dollaro, tutte le moneta del sistema avevano un valore aureo fisso. Un sistema deciso nel 1944 e andato gradualmente a regime lungo gli anni Cinquanta; la lira italiana vi fu dichiarata convertibile nel marzo del 1960 al cambio di 625 lire per dollaro e 21875 lire per oncia d’oro.

Fin dalla metà degli anni Sessanta il regime si era indebolito, innanzitutto, dal fatto che vincolava implicitamente la creazione di monete alla disponibilità di oro del mondo. L’oro andava estratto dalle miniere e non era in grado di crescere come il fabbisogno di mezzi di pagamento di un’economia internazionale in rapido sviluppo produttivo e commerciale.

Era prevedibile che, prima o poi, la creazione monetaria dovesse liberarsi dalla base aurea che fin dal 1924 (!) John Maynard Keynes aveva chiamato un «relitto barbarico». Chi accettava la moneta doveva farlo solo in base alla fiducia che altri la accettasse in pagamento, senza pensare che corrispondesse a una certa quantità di metallo prezioso.

I dollari che le spese e gli investimenti statunitensi spargevano nel mondo, crescevano in modo da render sempre più difficile per il Tesoro Usa esaudire chi avesse voluto convertirli nell’oro custodito a Fort Knox. Le politiche monetarie e finanziarie americane erano troppo espansive per garantire la stabilità del valore del dollaro.

I troppi dollari facevano anche crescere l’inflazione americana oltre il livello accettabile da paesi, come Germania e Giappone, che dalle iperinflazioni del dopoguerra avevano tratto una forte avversione alla crescita del livello dei prezzi. Con i cambi fissi l’aumento dei prezzi non poteva differire molto nei vari paesi senza stravolgere la competitività delle loro esportazioni.

Al timore tedesco e giapponese di dover “importare” l’inflazione Usa, si univano le due diverse ostilità politiche della Russia e della Francia gollista che speculavano vendendo dollari per metterne in difficoltà la parità con l’oro.

L’Italia aveva la regia del fronte opposto: col governatore della Banca d’Italia Guido Carli organizzava un cartello per calmierare con complesse operazioni il prezzo dell’oro. Il dollaro soffriva anche la crescente impopolarità mondiale della terribile escalation della guerra del Vietnam nella quale gli Usa insistevano con tragici risultati che si ripercuotevano sulla loro credibilità finanziaria.

Sono meglio i cambi flessibili?

ARCHIV - ILLUSTRATION - Eine Zehn-Dollar-US-Banknote liegt am 16.10.2013 auf einer US-amerikanischen Fahne in Dresden (Sachsen). Photo by: Arno Burgi/picture-alliance/dpa/AP Images

La decisione di Nixon di ripudiare la convertibilità in oro del dollaro fu a un certo punto inevitabile, pur apparendo come una clamorosa, aggressiva insolvenza imposta a un mondo che dei dollari non avrebbe potuto comunque fare a meno.

Nei 50 anni seguiti all’agosto 1971 il prezzo dell’oro in dollari, al netto dell’inflazione dei prezzi al consumo in Usa, è cresciuto del 780 per cento; il prezzo del marco tedesco (poi confluito dell’euro) in dollari è cresciuto di quasi il 250 per cento.

Pur svalutandosi molto, il dollaro inconvertibile rimase al centro del sistema monetario mondiale e ancora lo è. La conseguenza principale del passaggio ai cambi flessibili è stata la possibilità delle banche centrali di condurre politiche monetarie autonome, mirate alle esigenze nazionali, senza dover asservire la manovra dei tassi di interesse e della liquidità all’obiettivo di tener fermo il cambio.

Se la moneta di un paese a tende a svalutarsi e c’è l’impegno del cambio fisso, la banca centrale deve rafforzarla con tassi più alti e ricomprarsela, usando le riserve in valuta estera, anche se volesse, per esempio, crearne di più per finanziare gli investimenti. All’opposto se tende a rivalutarsi: deve crearne di più, comprare valuta estera, abbassare i tassi, anche se è preoccupata per una crescita eccessiva e inflazionistica.

Con i cambi flessibili c’è un grado di libertà in più per le autorità monetarie, che può essere prezioso ma può anche essere usato male. Gli anni Settanta e Ottanta videro politiche monetarie indisciplinate, tassi di inflazione alti, diversi, variabili, tassi di cambio instabili e incerti, tassi di interesse che rincorrevano le inflazioni e eccitavano speculazioni, violente manovre per cercar di stabilizzare i prezzi.

Essersi liberati dalla gabbia dei cambi fissi che, per altro, non erano rigidamente fissi e avrebbero potuto essere aggiustati in modi coordinati e concordi, anche per affrontare le conseguenze dell’aumento dei prezzi del petrolio, ha portato disordine monetario, incertezze e speculazioni finanziarie, distorsione dei flussi commerciali e degli investimenti, costi per la crescita reale e per la stabilità. L’Europa ha saputo presto reagire, riducendo l’instabilità monetaria al suo interno: nel 1979 ha adottato un suo regime di cambi fissi intereuropei e nel 1999 la moneta unica.

Con i cambi flessibili il mondo è andato anche verso una rapida liberalizzazione della mobilità internazionale dei capitali che da un lato, con la speculazione, ha aumentato ancor più l’instabilità del valore delle monete e dall’altro ha finito per ridurre proprio quell’ "autonomia” delle politiche monetarie che poteva essere il portato positivo della fine di Bretton Woods.

Un Paese che voglia stimolare la propria economia con una politica monetaria più espansiva e un cambio più debole deve confrontarsi con i mercati finanziari internazionali: se non hanno fiducia nei suoi programmi possono esasperare la svalutazione della sua moneta. Mentre una politica monetaria che si fa restrittiva per combattere l’inflazione può portare a eccessi di rivalutazione del cambio.

La mobilità dei capitali crea un ambiente di vasi rapidamente comunicanti: se a livello mondiale prevale l’abbondanza di liquidità, i singoli Paesi che cerchino di prosciugarne gli eccessi avranno difficoltà perché ogni aumento dei loro tassi di interesse attirerà fondi dall’estero. Viceversa, in un periodo di austerità monetaria, chi espande vede fuggire la moneta che crea.

Una nuova Bretton Woods?

All Tokyo evening newspapers give front page banners on President Nixon's latest step to defend the U.S. economy announced in a tv-radio speech. (AP Photo/Naokazu Oinuma)

Coi vasi comunicanti dei movimenti di capitali, i paesi monetariamente più potenti dominano le politiche monetarie degli altri. Gli Stati Uniti non hanno perso l’influenza che avevano sulle condizioni monetarie mondiali quando il dollaro era ufficialmente al centro del sistema di Bretton Woods. Sono loro anche oggi che guidano le sorti monetarie del mondo. Se si rafforzasse l’eurozona e crescesse l’importanza monetaria della Cina, la situazione sarebbe più controversa ma potrebbe diventare più instabile.

A meno che non si torni a una versione aggiornata dei “cambi fissi”: cioè un forte, esplicito, trasparente coordinamento delle politiche delle banche centrali, sia nel fissare i tassi di interesse e nel decidere la creazione di liquidità, mantenendo inflazione moderata e finanza stabile, sia nel regolare le attività globali degli intermediari bancari e finanziari, i loro rischi, la trasparenza e la correttezza delle loro operazioni, i loro sistemi di pagamento e i loro sviluppi digitali. Nulla osterebbe a chiamare “nuova Bretton Woods” questo maggior sforzo di coordinamento, che riconoscerebbe l’avvenuta globalizzazione finanziaria, andrebbe guidato dal G20, dovrebbe superare i mandati nazionali delle banche centrali obbligandole a tener conto delle ripercussioni mondiali delle loro decisioni nonché anche alle condizioni e alle esigenze delle economie emergenti e dei paesi sottosviluppati. Ma occorre vista lunga: Bretton Woods fu pensata fin dal 1942, quando infuriava la guerra mondiale e i banchieri centrali, per parlarsi, traversavano l’Atlantico rischiando non solo per le sue onde. 

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