I capimafia cadono quando non servono più. È il loro destino. Anche lui, Matteo Messina Denaro, probabilmente non sfuggirà a questa legge non scritta che ha sempre regolato gli affari interni delle “classi pericolose” in Italia. Lo prenderanno quando non sarà più utile dentro o fuori la sua organizzazione, quando sarà troppo ingombrante anche per chi gli sta vicino. È ricercato dal giugno di ventotto anni fa e ormai ha superato il record di latitanza di Totò Riina lunga quasi un quarto di secolo, ma difficilmente sfiorerà il primato di Bernardo Provenzano che è rimasto libero dal settembre del 1963 all’aprile del 2006. I tempi sono cambiati ma, evidentemente, non abbastanza per il boss di Castelvetrano che tutti cercano e nessuno trova.

Dietro ogni “irreperibilità” così straordinariamente prolungata c’è sempre qualcosa di indicibile, qualcosa che lega le mafie con gli apparati dello stato. È andata sempre così. Totò Riina ha passato in tranquillità la sua vita da ricercato, sino a quando – e in circostanze misteriosissime – i reparti speciali dei carabinieri l’hanno fermato solo dopo le stragi. E così pure il vecchio Provenzano, un fantasma che ha girato libero e indisturbato per Palermo per quattro decenni. Quando finalmente hanno deciso di acchiapparlo, dopo otto anni di ricerche, è scivolato nella rete dei poliziotti. Non c’è nessun capomafia che possa sottrarsi alla caccia, quando però la caccia è vera e non soltanto verosimile.

Prima dell’uccisione di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, i boss e i sicari di Cosa nostra erano foto sbiadite sul bollettino dei ricercati. Dopo i massacri, uno dopo l’altro sono finiti in carcere come per magia Giuseppe Madonia, Leoluca Bagarella, Nitto Santapaola, Giovanni Brusca, Pietro Aglieri, Vito Vitale. Volere è potere. Prima e dopo le stragi, il confine è in quel “non detto” che è sempre meglio non approfondire più di tanto per evitare sorprese su patti e “dialoghi” fra pezzi dello stato e capimafia. Per tornare a Matteo Messina Denaro. Non c’è ministro dell’Interno che, dopo ogni retata nella provincia trapanese, non abbia enfaticamente dichiarato «che gli abbiamo fatto terra bruciata intorno e ha i giorni contati».

I giorni sono diventati mesi e i mesi sono diventati anni. Ma è sempre libero. Qualche pasticcio in verità l’hanno combinato. Per esempio nel 2013, un’indagine del Ros dei carabinieri “interrotta” da un blitz della polizia e con la procura di Palermo che non ha saputo gestire un fantomatico “coordinamento” investigativo. Per esempio qualche anno prima, quando i servizi segreti lanciarono nell’arena l’ex sindaco di Castelvetrano Nino Vaccarino che iniziò con Messina Denaro una fitta corrispondenza per prenderlo all’amo. Mancò solo il finale, tutto si fermò sul più bello.

Il boss inafferrabile ha dalla sua più di un asso nella manica. Intanto è un “figlio di famiglia”, appartiene a un clan importante del Trapanese, suo padre Francesco è stato capomandamento di Castelvetrano. In quell’ambiente, la tradizione conta. Poi ha parentele mafiose eccellenti a Palermo, come i Guttadauro di Brancaccio che sono rappresentanti dell’alta mafia. E, soprattutto, ha il “sapere” delle stragi del 1992 per avervi partecipato: è a conoscenza di tanti segreti anche fuori dalla sua compagnia di giro. Poi c’è il resto.

Qualcuno dice che sia in possesso dell’“archivio” di Totò Riina, quelle carte fatte sparire dalla cassaforte dell’ultimo covo del capo dei capi quando fu arrestato il 15 gennaio del 1993. Un tesoro per i ricatti, forse anche un’assicurazione sulla libertà. Qualcun altro dà invece per scontato che sia lui a custodire la famosa agenda rossa di Paolo Borsellino, scomparsa in via Mariano D’Amelio subito dopo l’attentato. Vero? Falso? Chi lo sa. L’agenda rossa è ormai una sorta di scatola nera di tutti i misteri italiani.

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